Tutti come dei pupi siciliani
Instrument 3 a Uva grapes
Di quanta paranoia siamo portatori? Sappiamo di esserlo o nascondiamo tutto sotto il tappeto?
Lontani dal fare della blanda e banale ironia, si è scelto di usare queste parole di Nello Calabrò per entrare dentro e direttamente alla coreografia, in versione retrospettiva, che Roberto Zappalà ha proposto all'interno di Uva Grapes Festival - ormai alla sua settima edizione - dal titolo Instrument 3: cage sculpture. L'insostenibile pesantezza dell'essere.
Fortemente dinamica, aggressiva. Estremamente seria, pur non evitando di essere ironicamente cinica nel titolo. Attraverso i corpi dei tre danzatori si scrive idealmente un saggio sull'uomo contemporaneo: paure, contraddizioni, paranoie. Definita ormai la malattia dell'evo contemporaneo, la paranoia si annida furtiva nella nostra quotidianità fatta di ripetizioni. È nello sfociare nel patologico che le cose si complicano. Il corpo, per le conseguenze dirette che su esso produce la paranoia, può essere un buon oggetto di studio atto al disvelamento del rapporto fra patologia e corpo. Non volendoci addentrare troppo in questioni psicoanalitiche, si vuole sottolineare come ancora una volta Zappalà abbia trovato il medium migliore per un argomento specifico: il corpo, quello dei danzatori!
Davanti a noi, circondati nel perimetro del palco, da un rettangolo rosso, appaiono uno dopo l'altro i tre paranoici (Daniela Bendini, Adriano Coletta, Fernando Roldan Ferrer). Il rosso è il simbolo di tante cose: del sangue, della passione, del dolore. Dell'Eros misto a Thanathos. E infatti tutta la coreografia è pervasa contemporaneamente da una spinta verso la vita, e da una opposta verso la morte. I loro corpi cercano di tendere verso “l'alto”, hanno le mani aperte, si stirano nella speranza di poter toccare la luce e, invece, la forza di gravità li spinge verso il “basso”. Il corpo allora si rannicchia, si contorce. I gesti si fanno meccanici e ripetitivi, il ritmo incalza. La testa ondeggia furiosa avanti e indietro. I tre non si riconoscono, diffidano l'uno dell'altro. Corrono, scappano, si inseguono. Quanto dolore può contenere un corpo che non conosce volontà di potenza? Questi corpi retrocedono alla condizione primaria o infantile: privi di controllo diventano vittime di sé stessi. E anche il linguaggio, che fa della drammaturgia un pugno nello stomaco, si fa primordiale. Bambini che piangono? Malati che si lamentano? O è la nostra stessa anima che, con l'urlo primigenio, si rivendica all'uomo? Non ci è dato sapere, solo esperire.
La musica dal vivo di Alfio Antico non fa che dare una forte connotazione drammatica alla parabolica coreografia che ha il suo climax con gli assoli dei protagonisti, ma che dà il suo meglio, in quanto a carica dionisiaca, nelle parti di gruppo. In quell'insieme di carne che confonde e salva. Gesti rituali, catarsi, che attraverso la danza, guarisce, libera dalle gabbie (in inglese cage) costruite, inconsapevolmente, da noi stessi.
Spesso ci diamo pochi rimproveri, altrettanto spesso siamo lì a giustificarci, ma la verità e che non sappiamo a cosa aggrappare la nostra vita, quale scopo darle. Si vedono, più volte, i ballerini cercare di prendere l'aria, o cercare qualcosa o un appiglio. Non lo trovano, rimane aria il loro sforzo. Ormai siamo proiettati troppo verso l'esterno: dai reality, dalle immagini pubblicitarie, dal voyerismo intrinseco nella società dei consumi. Talmente tanto che non riusciamo a capire che questo è solo aria. Dall'interno all'esterno dovremmo guardare il mondo, capire e dare uno scopo alle nostre vite. Ricercare il vero amore per noi stessi che, primo fra tutti richiede comprensione di limiti e paure, in modo da non sentirci più, come si è stati educati a credere, dei super uomini immortali.
Ecco, Instrument 3 dice tante cose e stratificate sono le chiavi di lettura della sua coreografia: dai rapporti inter-personali a quelli intra-personali. Dalle dinamiche sociali, al mito del libero arbitrio.
Instrument 3 s'inserisce in un progetto più ampio, quello di Instruments, con cui Roberto Zappalà cerca di mettere in relazione il movimento (il corpo) con il suono, il rumore, la musica. Con Instruments il coreografo ha così intrapreso, con la collaborazione di musicisti di volta in volta coinvolti, un'interessante esplorazione di alcuni strumenti inusuali. Dopo il marranzano della tradizione siciliana (Instrument 1), con Instrument 3 Zappalà ha dato spazio ai tamburi dello straordinario Alfio Antico, realizzati a mano dallo stesso musicista.
Lontani dal fare della blanda e banale ironia, si è scelto di usare queste parole di Nello Calabrò per entrare dentro e direttamente alla coreografia, in versione retrospettiva, che Roberto Zappalà ha proposto all'interno di Uva Grapes Festival - ormai alla sua settima edizione - dal titolo Instrument 3: cage sculpture. L'insostenibile pesantezza dell'essere.
Fortemente dinamica, aggressiva. Estremamente seria, pur non evitando di essere ironicamente cinica nel titolo. Attraverso i corpi dei tre danzatori si scrive idealmente un saggio sull'uomo contemporaneo: paure, contraddizioni, paranoie. Definita ormai la malattia dell'evo contemporaneo, la paranoia si annida furtiva nella nostra quotidianità fatta di ripetizioni. È nello sfociare nel patologico che le cose si complicano. Il corpo, per le conseguenze dirette che su esso produce la paranoia, può essere un buon oggetto di studio atto al disvelamento del rapporto fra patologia e corpo. Non volendoci addentrare troppo in questioni psicoanalitiche, si vuole sottolineare come ancora una volta Zappalà abbia trovato il medium migliore per un argomento specifico: il corpo, quello dei danzatori!
Davanti a noi, circondati nel perimetro del palco, da un rettangolo rosso, appaiono uno dopo l'altro i tre paranoici (Daniela Bendini, Adriano Coletta, Fernando Roldan Ferrer). Il rosso è il simbolo di tante cose: del sangue, della passione, del dolore. Dell'Eros misto a Thanathos. E infatti tutta la coreografia è pervasa contemporaneamente da una spinta verso la vita, e da una opposta verso la morte. I loro corpi cercano di tendere verso “l'alto”, hanno le mani aperte, si stirano nella speranza di poter toccare la luce e, invece, la forza di gravità li spinge verso il “basso”. Il corpo allora si rannicchia, si contorce. I gesti si fanno meccanici e ripetitivi, il ritmo incalza. La testa ondeggia furiosa avanti e indietro. I tre non si riconoscono, diffidano l'uno dell'altro. Corrono, scappano, si inseguono. Quanto dolore può contenere un corpo che non conosce volontà di potenza? Questi corpi retrocedono alla condizione primaria o infantile: privi di controllo diventano vittime di sé stessi. E anche il linguaggio, che fa della drammaturgia un pugno nello stomaco, si fa primordiale. Bambini che piangono? Malati che si lamentano? O è la nostra stessa anima che, con l'urlo primigenio, si rivendica all'uomo? Non ci è dato sapere, solo esperire.
La musica dal vivo di Alfio Antico non fa che dare una forte connotazione drammatica alla parabolica coreografia che ha il suo climax con gli assoli dei protagonisti, ma che dà il suo meglio, in quanto a carica dionisiaca, nelle parti di gruppo. In quell'insieme di carne che confonde e salva. Gesti rituali, catarsi, che attraverso la danza, guarisce, libera dalle gabbie (in inglese cage) costruite, inconsapevolmente, da noi stessi.
Spesso ci diamo pochi rimproveri, altrettanto spesso siamo lì a giustificarci, ma la verità e che non sappiamo a cosa aggrappare la nostra vita, quale scopo darle. Si vedono, più volte, i ballerini cercare di prendere l'aria, o cercare qualcosa o un appiglio. Non lo trovano, rimane aria il loro sforzo. Ormai siamo proiettati troppo verso l'esterno: dai reality, dalle immagini pubblicitarie, dal voyerismo intrinseco nella società dei consumi. Talmente tanto che non riusciamo a capire che questo è solo aria. Dall'interno all'esterno dovremmo guardare il mondo, capire e dare uno scopo alle nostre vite. Ricercare il vero amore per noi stessi che, primo fra tutti richiede comprensione di limiti e paure, in modo da non sentirci più, come si è stati educati a credere, dei super uomini immortali.
Ecco, Instrument 3 dice tante cose e stratificate sono le chiavi di lettura della sua coreografia: dai rapporti inter-personali a quelli intra-personali. Dalle dinamiche sociali, al mito del libero arbitrio.
Instrument 3 s'inserisce in un progetto più ampio, quello di Instruments, con cui Roberto Zappalà cerca di mettere in relazione il movimento (il corpo) con il suono, il rumore, la musica. Con Instruments il coreografo ha così intrapreso, con la collaborazione di musicisti di volta in volta coinvolti, un'interessante esplorazione di alcuni strumenti inusuali. Dopo il marranzano della tradizione siciliana (Instrument 1), con Instrument 3 Zappalà ha dato spazio ai tamburi dello straordinario Alfio Antico, realizzati a mano dallo stesso musicista.
gb
UVA GRAPES
Instrument 3: cage sculpture l'insostenibile pesantezza dell'essere.
Coreografia e regia: Roberto Zappalà
Musiche originali: Alfio Antico (eseguite dal vivo) e Paula Matthusen
Altre musiche: John Cage
Drammaturgia: Nello Calabrò
Ai tamburi: Alfio Antico
www.compagniazappala.it
www.scenariopubblico.com
Instrument 3: cage sculpture l'insostenibile pesantezza dell'essere.
Coreografia e regia: Roberto Zappalà
Musiche originali: Alfio Antico (eseguite dal vivo) e Paula Matthusen
Altre musiche: John Cage
Drammaturgia: Nello Calabrò
Ai tamburi: Alfio Antico
www.compagniazappala.it
www.scenariopubblico.com