Societas Raffaello Sanzio
alle Colline il trio Macbeth
Alla loro decima presenza al Festival Delle Colline Torinesi, la Societas Raffaello Sanzio rovista negli orrori della mente. Con Macbeth su Macbeth su Macbeth - studio per la mano sinistra, al Teatro Astra, si evocano streghe e troni dorati. In atmosfere nere, rami si fanno coltelli e un violoncello suona col fuoco.
Il rito
Il teatro secondo la Societas
Dagli esordi iconoclasti, il loro teatro, fin da subito è stato all'insegna del paradosso, partorendo simboli e immaginari tanto complessi quanto potenti. Simboli, però, che non vogliono né seguire un principio ordinatore - quale può essere la rappresentazione - né cercano di sostituirlo con un codice altro o diverso. Si contesta il linguaggio stesso insomma, e la negazione - il movente della Societas - investe tutti i segni della messa in scena. Segni che non hanno un significato in sé, ma una potenzialità comunicativa: «un torrente di segni che passano, anzi trasmigrano da una forma all'altra» confidava Romeo Castellucci a Franco Quadri in un'intervista del 2000.
Nonostante la forte contestazione, anche nei confronti del teatro sperimentale, il gruppo mette in scena, però, spettacoli che esaltano il testo e la tecnica. La voce ha una funzione particolare per la Societas: non è un veicolo di senso, non è imprigionata dalla parola, ma non è neanche libera. La voce è sostanza - suono, mantra, corpo - e per questo non è importante, affermerà sempre Castelluci, il "cosa" si pronuncia, ma il "come", l'intonazione. In uno dei primi lavori infatti, Santa Sofia del 1985, attraverso una tecnica che la Compagnia definiva "paralisi teatrale" si «immobilizzava (letteralmente) una persona sul palco, inchiodandola […] per far sì che la voce fosse la leva di tutto il resto. Oggi, con la loro Macbeth, "le voci di dentro" giocano un ruolo centrale nella messa in scena. "Veleno che entra in circolo mutando i parametri vitali, parole che dominano la scena, corroborate dalla ripetizione".
L'attenzione data alla voce è la stessa che si concede anche al testo. Lo stile adottato è quello atemporale. Testi solenni come possono essere quelli dei miti. Il mito, per la Raffaello Sanzio, è antinaturalistico, impersonale. È l'immobilità, la paralisi - come nei miti, le fiabe, nelle credenze popolari - sono le cose che non cambiano "a dispetto dell'impero della parola" che invece è in continuo rinnovamento. E questa "atemporalità", si ri-crea con parole che sono, ancora una volta, scelte in base al suono, un suono che debba essere quanto più solenne e arcaico possibile.
La disposizione frontale nei loro spettacoli, rinunciando alla prospettiva, partecipa alla ricerca di quell'atemporalità. "La prospettiva non è solenne, è legata alla cronaca, è realistica," afferma Chiara Castellucci, "mentre la bidimensionalità - soprattutto quella bizantina - restituisce l'idea di un muro. Che separa, ma che va anche condiviso. Perché è nella condivisione che sta l'essenza liturgica del teatro. La coincidenza tra rappresentazione ed esperienza che vede una parte attiva (gli attori) e una passiva (il pubblico) che assorbe lo spettacolo".
Macbeth
Una e trina
Dopo un processo pluriennale di ricerca in diversi contesti laboratoriali, Chiara Guidi si è messa alla prova con l'opera più breve e concentrata del corpus shakespeariano. Una Macbeth in forma di studio, ribadito dal sottotitolo, che porta sulla scena un rallentamento sul piano psicologico dei personaggi, producendo l'effetto di dilatazione temporale di cui sopra, e ponendo, nelle voci, e dunque nella dimensione sonora, lo strumento centrale per ingigantire la forza delle parole e i rumori di un'ambiente in cui il canto degli uccelli accompagna il crimine destinato a compiersi. Alla voce di tre attrici è affidato il compito di interpretare tutta la tragedia. Di bocca in bocca il corpo del poeta, continuamente suddiviso, si frantuma in pezzi, si spezza in arbitrari emistichi (versi incompleti o citazioni parziali) per nominare quell'unica profezia che contagia, come un morbo, tutte le presenze.
Una messa in scena complessa e completa che nella collaborazione artistica di Francesca Grilli e quella musicale del duo Guerri/Ielasi crea quelle suggestioni ataviche atte proprio a immergere la vicenda di Mecbeth nel tempo del mito, almeno inizialmente.
Il suo è un dolore maligno, contagioso e viscerale. Non basta solo una voce per far esprimere la sofferenza, forse incompleto anche il trio nel comunicare tutto il patrimonio emotivo del singolo individuo. Perché laMacbeth della Guidi vuole essere, leggendo i testi che accompagnano lo spettacolo, anche un compendio teatrale sull'impossibilità, sulla scena, di dare completezza all'interiorità del soggetto.
"Il bello si fa brutto, e il brutto diventa bello" ripeteranno come un mantra le streghe, puntando su come i contrasti possono convivere, citando gli ultimi studi neuro-psichici in cui la mente figura come l'insieme di poli opposti. Solo che da Pirandello (Re Lear, Non si sa come) ai Marcido Marcidoris (Loretta Strong) questa volontà di esternazione del divenire interiore appare come una battaglia persa in partenza o peggio come unmero gioco teatrale per una nicchia di specialisti. Ecco perché il tentativo di unire verità e finzione, da parte della Guidi, con il malessere annunciato, della persona e non del personaggio, non solo sorprende, per la sua natura ideologica anacronistica, ma rompe irrimediabilmente l'atmosfera mitica riportando al contingente e creando un cortocircuito che nulla dà e nulla toglie a quella ricerca, anzi conferma che il movente deve, necessariamente, modificarsi.
L'atmosfera, che si vuole solenne e arcaica, non lo è in realtà. Infatti, i segni e i simboli che sono usati, sono talmente radicati nel dramma, perché dal testo sono partoriti, che diviene inevitabile aver letto Shakespeare per cogliere il significato di porta, sedie, pezzi d'albero, coltelli, mani dorate. E questo non corrisponde esattamente ad «un torrente di segni che passano, anzi trasmigrano da una forma all'altra» come affermava Castellucci. Perché, se così doveva essere, ai simboli spettava l'elevazione dal particolare - il testo - all'universale - l'esperienza umana - per essere mito e non prelevamento di simboli dall'opera del Bardo.
Così, Macbeth su Macbeth su Macbeth, già dal titolo, diviene una mera esternazione, forse poco originale, dell'interiorità corrotta e corroborante di una mente devota alle potenze oscure. Non rito collettivo ma pura re-interpretazione di un testo classico riletto secondo i cardini del miglior teatro contemporaneo: mistione fra le arti, testo no sense o aforismatico o, come preferisce la compagnia, "superbrechtiano".
Il rito
Il teatro secondo la Societas
Dagli esordi iconoclasti, il loro teatro, fin da subito è stato all'insegna del paradosso, partorendo simboli e immaginari tanto complessi quanto potenti. Simboli, però, che non vogliono né seguire un principio ordinatore - quale può essere la rappresentazione - né cercano di sostituirlo con un codice altro o diverso. Si contesta il linguaggio stesso insomma, e la negazione - il movente della Societas - investe tutti i segni della messa in scena. Segni che non hanno un significato in sé, ma una potenzialità comunicativa: «un torrente di segni che passano, anzi trasmigrano da una forma all'altra» confidava Romeo Castellucci a Franco Quadri in un'intervista del 2000.
Nonostante la forte contestazione, anche nei confronti del teatro sperimentale, il gruppo mette in scena, però, spettacoli che esaltano il testo e la tecnica. La voce ha una funzione particolare per la Societas: non è un veicolo di senso, non è imprigionata dalla parola, ma non è neanche libera. La voce è sostanza - suono, mantra, corpo - e per questo non è importante, affermerà sempre Castelluci, il "cosa" si pronuncia, ma il "come", l'intonazione. In uno dei primi lavori infatti, Santa Sofia del 1985, attraverso una tecnica che la Compagnia definiva "paralisi teatrale" si «immobilizzava (letteralmente) una persona sul palco, inchiodandola […] per far sì che la voce fosse la leva di tutto il resto. Oggi, con la loro Macbeth, "le voci di dentro" giocano un ruolo centrale nella messa in scena. "Veleno che entra in circolo mutando i parametri vitali, parole che dominano la scena, corroborate dalla ripetizione".
L'attenzione data alla voce è la stessa che si concede anche al testo. Lo stile adottato è quello atemporale. Testi solenni come possono essere quelli dei miti. Il mito, per la Raffaello Sanzio, è antinaturalistico, impersonale. È l'immobilità, la paralisi - come nei miti, le fiabe, nelle credenze popolari - sono le cose che non cambiano "a dispetto dell'impero della parola" che invece è in continuo rinnovamento. E questa "atemporalità", si ri-crea con parole che sono, ancora una volta, scelte in base al suono, un suono che debba essere quanto più solenne e arcaico possibile.
La disposizione frontale nei loro spettacoli, rinunciando alla prospettiva, partecipa alla ricerca di quell'atemporalità. "La prospettiva non è solenne, è legata alla cronaca, è realistica," afferma Chiara Castellucci, "mentre la bidimensionalità - soprattutto quella bizantina - restituisce l'idea di un muro. Che separa, ma che va anche condiviso. Perché è nella condivisione che sta l'essenza liturgica del teatro. La coincidenza tra rappresentazione ed esperienza che vede una parte attiva (gli attori) e una passiva (il pubblico) che assorbe lo spettacolo".
Macbeth
Una e trina
Dopo un processo pluriennale di ricerca in diversi contesti laboratoriali, Chiara Guidi si è messa alla prova con l'opera più breve e concentrata del corpus shakespeariano. Una Macbeth in forma di studio, ribadito dal sottotitolo, che porta sulla scena un rallentamento sul piano psicologico dei personaggi, producendo l'effetto di dilatazione temporale di cui sopra, e ponendo, nelle voci, e dunque nella dimensione sonora, lo strumento centrale per ingigantire la forza delle parole e i rumori di un'ambiente in cui il canto degli uccelli accompagna il crimine destinato a compiersi. Alla voce di tre attrici è affidato il compito di interpretare tutta la tragedia. Di bocca in bocca il corpo del poeta, continuamente suddiviso, si frantuma in pezzi, si spezza in arbitrari emistichi (versi incompleti o citazioni parziali) per nominare quell'unica profezia che contagia, come un morbo, tutte le presenze.
Una messa in scena complessa e completa che nella collaborazione artistica di Francesca Grilli e quella musicale del duo Guerri/Ielasi crea quelle suggestioni ataviche atte proprio a immergere la vicenda di Mecbeth nel tempo del mito, almeno inizialmente.
Il suo è un dolore maligno, contagioso e viscerale. Non basta solo una voce per far esprimere la sofferenza, forse incompleto anche il trio nel comunicare tutto il patrimonio emotivo del singolo individuo. Perché laMacbeth della Guidi vuole essere, leggendo i testi che accompagnano lo spettacolo, anche un compendio teatrale sull'impossibilità, sulla scena, di dare completezza all'interiorità del soggetto.
"Il bello si fa brutto, e il brutto diventa bello" ripeteranno come un mantra le streghe, puntando su come i contrasti possono convivere, citando gli ultimi studi neuro-psichici in cui la mente figura come l'insieme di poli opposti. Solo che da Pirandello (Re Lear, Non si sa come) ai Marcido Marcidoris (Loretta Strong) questa volontà di esternazione del divenire interiore appare come una battaglia persa in partenza o peggio come unmero gioco teatrale per una nicchia di specialisti. Ecco perché il tentativo di unire verità e finzione, da parte della Guidi, con il malessere annunciato, della persona e non del personaggio, non solo sorprende, per la sua natura ideologica anacronistica, ma rompe irrimediabilmente l'atmosfera mitica riportando al contingente e creando un cortocircuito che nulla dà e nulla toglie a quella ricerca, anzi conferma che il movente deve, necessariamente, modificarsi.
L'atmosfera, che si vuole solenne e arcaica, non lo è in realtà. Infatti, i segni e i simboli che sono usati, sono talmente radicati nel dramma, perché dal testo sono partoriti, che diviene inevitabile aver letto Shakespeare per cogliere il significato di porta, sedie, pezzi d'albero, coltelli, mani dorate. E questo non corrisponde esattamente ad «un torrente di segni che passano, anzi trasmigrano da una forma all'altra» come affermava Castellucci. Perché, se così doveva essere, ai simboli spettava l'elevazione dal particolare - il testo - all'universale - l'esperienza umana - per essere mito e non prelevamento di simboli dall'opera del Bardo.
Così, Macbeth su Macbeth su Macbeth, già dal titolo, diviene una mera esternazione, forse poco originale, dell'interiorità corrotta e corroborante di una mente devota alle potenze oscure. Non rito collettivo ma pura re-interpretazione di un testo classico riletto secondo i cardini del miglior teatro contemporaneo: mistione fra le arti, testo no sense o aforismatico o, come preferisce la compagnia, "superbrechtiano".
gb
Festival delle Colline - Teatro Astra
Macbeth su Macbeth su Macbeth
uno studio per la mano sinistra
da William Shakespeare
adattamento e regia di Chiara Guidi
musiche originali di Francesco Guerri e Giuseppe Ielasi
collaborazione artistica di Francesca Grilli
con Anna Lidia Molina, Agnese Scotti, Chiara Guidi
www.raffaellosanzio.org
Macbeth su Macbeth su Macbeth
uno studio per la mano sinistra
da William Shakespeare
adattamento e regia di Chiara Guidi
musiche originali di Francesco Guerri e Giuseppe Ielasi
collaborazione artistica di Francesca Grilli
con Anna Lidia Molina, Agnese Scotti, Chiara Guidi
www.raffaellosanzio.org