caterina sagna
dimenticati ma forse immortali
Tre uomini, tre donne-schermo. Un telo bianco.
Sulla scena scura appaiono i fili bianchi che tengono il paracadute. Come delle sagome, forse fantasmi, fuorisciti dalla lava di una città dissotterata, i fili si muovono; il telo si apre sul palco, ne fuoriescono i tre danzatori. Tre come le fasi della vita che rappresentano, tre come il numero perfetto che nasconde l'unicità, esattamente come il triunvirato composto dalle donne che mira ad essere simbolo della donna per antonomasia: la madre, la terra, la linfa vitale. I sei dialogano, o almeno ci provano. Il paracadute di seta, come lava bianca, sembra suggerire la loro precarietà: dobbiamo pensarli come dei superstiti o come dei reduci?
Sicuramente sono tornati e con loro hanno portato la consapevolezza tipica di chi vedendo la morte riconosce l'importanza della vita. Infatti ci guardano scrutandoci, ridono di noi; esigono l'attenzione che spetta al risultato del nostro tanto amato progresso. Si ride con la tragicità negli occhi, e ci si commuove con un sorriso amaro quando, durante la messa in scena, si scopre che è la parodia del non senso ad essere rappresentata. Il corpo come gabbia e la danza come metafora della vita. Che senso ha ripetere continuamente gli stessi passi, le stesse coreografie? Che senso ha lavorare, studiare, vivere se il senso primo viene meno? In sostanza che vita avremo mai senza empatia, senza quella passione che fa della professione di una persona la gratificazione della stessa? Esattamente la nostra. Insoddisfatti e costretti in un corpo che crediamo essere libero. Invece è costretto nella forma, negli abiti e nelle consuetudini. I danzatori come l'uomo a noi contemporaneo, le donne come coscienza, la Madre, la Natura. Bene cosa pensa la madre quindi?
La prima ha parlare è la madre-bambina. Forse simbolo della purezza delle origini; la segue la madre-anziana, simbolo della semplicità della saggezza. L'ultima a parlare è la madre-adulta: la rappresentazione della pragmaticità con un arto superiore amputato. I tre danzatori si identificano con le diverse età come le donne ed hanno con loro un rapporto di dipendenza quasi. L'uomo non può scindere dalla natura in quanto natura. Ovviamente le tre donne non sono contente, l'anziana è pompei, il vulcano: vorrebbe esplodere e cancellare tutto, ruttare su quello che la nostra democratica razionalità ci ha fatto diventare. La donna adulta vorrebbe avere tante dita medie e mandare tutto a fan... esattamente come se un treno avesse fischiato. Al contempo si vedono i danzatori muoversi esteticamente sconnessi, senza un apparente motivo logico. Urlano, si annoiano, ciarlano, ma tuttavia ancora cercano e sperano. Forse allora un rimedio c'è?
Esattamente nel momento in cui i tre ballerini si avviluppano fra loro e si estraggono a vicenda le lentine l'uno dagli occhi dell'altro, tutto apparve chiaro. È forse il caso che togliamo dai nostri occhi quel velo terso di torpore che ci limita solo a guardare piuttosto che vedere. È il caso che riprendiamo il dialogo con la nostra natura di esseri umani e pretendiamo qualcosa di più che superflue relazioni commerciali. Ecco cosa sono i "quasi dimenticati ma forse eterni", sono quelle espressioni umane che necessitano delle relazioni sane per avere un senso e linfa. Sono un sorriso, l'ascolto, l'empatia. Sono il vedere negli occhi del prossimo gli occhi di un amico e non di un nemico e da qui iniziare un dialogo. Un confronto. Sono i rimedi che potrebbero far tornare alla nostra età adulta tutti e due gli arti superiori, in modo che assaporando nuovamente la bellezza dell'abbracciare, si scopra l'esigenza di amare.
Sulla scena scura appaiono i fili bianchi che tengono il paracadute. Come delle sagome, forse fantasmi, fuorisciti dalla lava di una città dissotterata, i fili si muovono; il telo si apre sul palco, ne fuoriescono i tre danzatori. Tre come le fasi della vita che rappresentano, tre come il numero perfetto che nasconde l'unicità, esattamente come il triunvirato composto dalle donne che mira ad essere simbolo della donna per antonomasia: la madre, la terra, la linfa vitale. I sei dialogano, o almeno ci provano. Il paracadute di seta, come lava bianca, sembra suggerire la loro precarietà: dobbiamo pensarli come dei superstiti o come dei reduci?
Sicuramente sono tornati e con loro hanno portato la consapevolezza tipica di chi vedendo la morte riconosce l'importanza della vita. Infatti ci guardano scrutandoci, ridono di noi; esigono l'attenzione che spetta al risultato del nostro tanto amato progresso. Si ride con la tragicità negli occhi, e ci si commuove con un sorriso amaro quando, durante la messa in scena, si scopre che è la parodia del non senso ad essere rappresentata. Il corpo come gabbia e la danza come metafora della vita. Che senso ha ripetere continuamente gli stessi passi, le stesse coreografie? Che senso ha lavorare, studiare, vivere se il senso primo viene meno? In sostanza che vita avremo mai senza empatia, senza quella passione che fa della professione di una persona la gratificazione della stessa? Esattamente la nostra. Insoddisfatti e costretti in un corpo che crediamo essere libero. Invece è costretto nella forma, negli abiti e nelle consuetudini. I danzatori come l'uomo a noi contemporaneo, le donne come coscienza, la Madre, la Natura. Bene cosa pensa la madre quindi?
La prima ha parlare è la madre-bambina. Forse simbolo della purezza delle origini; la segue la madre-anziana, simbolo della semplicità della saggezza. L'ultima a parlare è la madre-adulta: la rappresentazione della pragmaticità con un arto superiore amputato. I tre danzatori si identificano con le diverse età come le donne ed hanno con loro un rapporto di dipendenza quasi. L'uomo non può scindere dalla natura in quanto natura. Ovviamente le tre donne non sono contente, l'anziana è pompei, il vulcano: vorrebbe esplodere e cancellare tutto, ruttare su quello che la nostra democratica razionalità ci ha fatto diventare. La donna adulta vorrebbe avere tante dita medie e mandare tutto a fan... esattamente come se un treno avesse fischiato. Al contempo si vedono i danzatori muoversi esteticamente sconnessi, senza un apparente motivo logico. Urlano, si annoiano, ciarlano, ma tuttavia ancora cercano e sperano. Forse allora un rimedio c'è?
Esattamente nel momento in cui i tre ballerini si avviluppano fra loro e si estraggono a vicenda le lentine l'uno dagli occhi dell'altro, tutto apparve chiaro. È forse il caso che togliamo dai nostri occhi quel velo terso di torpore che ci limita solo a guardare piuttosto che vedere. È il caso che riprendiamo il dialogo con la nostra natura di esseri umani e pretendiamo qualcosa di più che superflue relazioni commerciali. Ecco cosa sono i "quasi dimenticati ma forse eterni", sono quelle espressioni umane che necessitano delle relazioni sane per avere un senso e linfa. Sono un sorriso, l'ascolto, l'empatia. Sono il vedere negli occhi del prossimo gli occhi di un amico e non di un nemico e da qui iniziare un dialogo. Un confronto. Sono i rimedi che potrebbero far tornare alla nostra età adulta tutti e due gli arti superiori, in modo che assaporando nuovamente la bellezza dell'abbracciare, si scopra l'esigenza di amare.
Gb
MILANOLTRE
P.O.M.P.E.I. 2° scavo
presque oubliées mais peut-etre immortelles
Caterina Sagna
www.caterinasagna.org
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presque oubliées mais peut-etre immortelles
Caterina Sagna
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