Creaturamia...
intervista a Marianna esposito
RECENSIONE
Secondo appuntamento per Schegge al CuboTeatro.
Dopo Made in Ilva che tracciava le diagonali di una situazione italiana fra necessità e sfruttamento, è la volta di "Creaturamia..." della Compagnia TeatRing. Il 10 e l'11 il Cubo si fa ring e una madre lotta col figlio per sopravvivere. Perché il vero eroismo è nella lotta. La vittoria, è solo lotteria.
Nata nel 2004, la Compagnia TeatRing dal suo esordio si pone come obiettivo primario la ricerca di un teatro essenziale, evocativo. Un teatro che sappia crescere e comunicare attraverso la contaminazione delle arti performative, alla ricerca di un confine sempre più sottile tra teatro, danza e musica. Primo loro spettacolo è Riso di carta, spettacolo di teatrodanza ispirato a Madama Butterfly in cui forti sono le istanze del corpo e insieme della parola.
Due anni dopo, nel 2006, la Compagnia partorisce "Creaturamia...", spettacolo apprezzatissimo che, partecipando a svariati festival - Premio Nazionale per Attrici Bianca Maria Pirazzoli, UNO Concorso Nazionale di Monologhi Teatrali, Edinburgh FRINGE Festival, Status Quo - per le tematiche trattate viene presentato non solo nei teatri e nei festival, ma nelle scuole e nelle carceri.
Liberamente tratto dal romanzo Caracreatura di Pino Roveredo - edito da Bompiani - "Creaturamia..." è la storia di Marina. Personaggio tragicomico, a volte goffo, a tratti grottesco, ma maledettamente reale. Una madre non molto attenta presa dalle difficoltà della vita a guerreggiare con un figlio adolescente vittima del mondo droghereccio.
Creaturamia non è solo la storia di tanti figli ma narra la miseria di moltissimi genitori, gli stessi che fingendo di non vedere spingono inconsapevolmente i figli dentro il tunnel. Parole come "il mio principino" e atteggiamenti permissivi come il dare sempre "una carta da 10 euro", pur se con le migliori intenzioni, denunciano un permissivismo che odora, già dal principio, di morte. Si amano veramente le proprie creature? Anzi i genitori, sono adulti che hanno compreso cosa voglia dire amare?
Una scrittura scenica vincente in cui, con pochissimi accorgimenti - una sedia, un tavolo, un filo che ricorda la matassa gaddiana, e due pupazzi e poco altro: fra luci e indumenti - si evoca quel miscuglio di sensazioni, fra impotenza e presa di posizione, che anima Marina. Certo la forza dello spettacolo è il testo - esposizione che non sempre si pone allo stesso livello, facendo in modo che una prima parte sia priva delle sfumature tonali che il dramma necessità, tutta a favore di una seconda in cui, corpo e parole viaggiano sullo stesso livello. Molti gli accorgimenti fisici: il rumore di una sedia che ondula, il battere dei pugni sul tavolo, il corpo che cade di peso e si rialza fulmineo financo arrivare all'acme drammatico in cui Marina si ritrova immersa nel dolore, tanto da non riuscire a parlare, simboleggiato dal filo che la circonda tutta, paralizzandola. Da qui, la rabbia e la futura presa di coscienza che, sciogliendo il dramma, condurrà al lieto fine.
Ma aldilà di impressioni, che sono e possono essere, soggettive, vediamo con la regista performer il perché di uno spettacolo.
INTERVISTA
D. Cosa ti ha spinto a scegliere il testo di Roveredo? Sguardo al sociale o movente personale?
R. Mi piace parlare di eroi. Per me questo spettacolo parla di droga solo "di sponda". Se sostituissimo la parola droga con la parola "depressione" o "alcol", "anoressia", il risultato non sarebbe differente. Perché il fuoco di questa storia è su tutti quegli eroi nascosti, di cui i giornali non parlano, che consumano la propria vita con la forza spaventosa dell'amore e dell'ottimismo. Marina è eroica perché si rialza sempre. Questa storia è estenuante sia a leggerla, sia a guardarla, perché ogni volta che vedi cadere la protagonista pensi che quella sia stata l'ultima. Invece lei si rialza. E ogni volta che lo fa, tu senti crescere anche in te, come essere umano, l'orgoglio e la voglia di credere.
D. Cosa fa di un'esperienza adolescenziale l'inizio dell'inferno?
R. Non credo che sia l'adolescenza il problema. La droga guadagna terreno in situazioni dove il giovane non ha stimoli. Credo che l'abbrutimento culturale generale e la mancanza di prospettive che ci circondano adesso siano parzialmente responsabili per questo enorme ritorno di fiamma di droghe come l'eroina, che è la droga "della felicità": la prendi e tutti i tuoi problemi scompaiono. I giovani hanno bisogno di non essere sottovalutati, di essere ascoltati, ma non con compassione, di essere responsabilizzati. Di essere circondati da bellezza, arte e cultura. Di riuscire a guardare la luna, anziché il dito.
D. La famiglia oggi ha perso il suo potere formativo/educativo? Insomma un figlio può raccontare il suo inferno ai genitori?
R. Credo che ogni famiglia sia una storia a sé. Ma, tracciando delle differenze, trovo che oggi i genitori allevino i figli assecondando troppo il narcisismo che caratterizza questa generazione. Noi siamo i figli dei genitori che hanno fatto la guerra, caricati del senso di colpa: "io non ho potuto studiare, tu sì. Io non ho potuto divertirmi, tu sì". I figli di oggi sono figli dei genitori frutto del benessere e mi sembra che la tendenza, oggi, sia più esortare i figli ad essere unici, diamanti rari in mezzo alla mediocrità, fare i ballerini, i cantanti, gli "artisti", andare in tv, su youtube, essere belli e ammirati. Questo carico di aspettative credo possa essere molto pesante per un giovane. I ragazzi sono allevati come narcisi in una società narcisistica. E Narciso non fa una bella fine, purtroppo.
D. La madre è tutto. E il padre, una volta assolti i doveri lavorativi, che ruolo assume?
R. Il padre è importantissimo. Sarebbe bello se questa distinzione di genere smettesse di essere categorica e le madri imparassero ad essere critiche, aspre e meno chiocce a volte, mentre i padri imparassero ad essere più affettivi ed empatici e a trasmettere ai figli anche il loro amore, oltre che spingerli a desiderare la loro stima.
D. A volte la verità è troppo forte da accettare che i genitori preferiscono prendersi "per il culo" da soli?
R. Chiunque si prende per il culo da solo, a volte. Si sa sempre quale sia la verità. Bisogna trovare dentro la forza e la saggezza di accettarla. Non è facile.
Secondo appuntamento per Schegge al CuboTeatro.
Dopo Made in Ilva che tracciava le diagonali di una situazione italiana fra necessità e sfruttamento, è la volta di "Creaturamia..." della Compagnia TeatRing. Il 10 e l'11 il Cubo si fa ring e una madre lotta col figlio per sopravvivere. Perché il vero eroismo è nella lotta. La vittoria, è solo lotteria.
Nata nel 2004, la Compagnia TeatRing dal suo esordio si pone come obiettivo primario la ricerca di un teatro essenziale, evocativo. Un teatro che sappia crescere e comunicare attraverso la contaminazione delle arti performative, alla ricerca di un confine sempre più sottile tra teatro, danza e musica. Primo loro spettacolo è Riso di carta, spettacolo di teatrodanza ispirato a Madama Butterfly in cui forti sono le istanze del corpo e insieme della parola.
Due anni dopo, nel 2006, la Compagnia partorisce "Creaturamia...", spettacolo apprezzatissimo che, partecipando a svariati festival - Premio Nazionale per Attrici Bianca Maria Pirazzoli, UNO Concorso Nazionale di Monologhi Teatrali, Edinburgh FRINGE Festival, Status Quo - per le tematiche trattate viene presentato non solo nei teatri e nei festival, ma nelle scuole e nelle carceri.
Liberamente tratto dal romanzo Caracreatura di Pino Roveredo - edito da Bompiani - "Creaturamia..." è la storia di Marina. Personaggio tragicomico, a volte goffo, a tratti grottesco, ma maledettamente reale. Una madre non molto attenta presa dalle difficoltà della vita a guerreggiare con un figlio adolescente vittima del mondo droghereccio.
Creaturamia non è solo la storia di tanti figli ma narra la miseria di moltissimi genitori, gli stessi che fingendo di non vedere spingono inconsapevolmente i figli dentro il tunnel. Parole come "il mio principino" e atteggiamenti permissivi come il dare sempre "una carta da 10 euro", pur se con le migliori intenzioni, denunciano un permissivismo che odora, già dal principio, di morte. Si amano veramente le proprie creature? Anzi i genitori, sono adulti che hanno compreso cosa voglia dire amare?
Una scrittura scenica vincente in cui, con pochissimi accorgimenti - una sedia, un tavolo, un filo che ricorda la matassa gaddiana, e due pupazzi e poco altro: fra luci e indumenti - si evoca quel miscuglio di sensazioni, fra impotenza e presa di posizione, che anima Marina. Certo la forza dello spettacolo è il testo - esposizione che non sempre si pone allo stesso livello, facendo in modo che una prima parte sia priva delle sfumature tonali che il dramma necessità, tutta a favore di una seconda in cui, corpo e parole viaggiano sullo stesso livello. Molti gli accorgimenti fisici: il rumore di una sedia che ondula, il battere dei pugni sul tavolo, il corpo che cade di peso e si rialza fulmineo financo arrivare all'acme drammatico in cui Marina si ritrova immersa nel dolore, tanto da non riuscire a parlare, simboleggiato dal filo che la circonda tutta, paralizzandola. Da qui, la rabbia e la futura presa di coscienza che, sciogliendo il dramma, condurrà al lieto fine.
Ma aldilà di impressioni, che sono e possono essere, soggettive, vediamo con la regista performer il perché di uno spettacolo.
INTERVISTA
D. Cosa ti ha spinto a scegliere il testo di Roveredo? Sguardo al sociale o movente personale?
R. Mi piace parlare di eroi. Per me questo spettacolo parla di droga solo "di sponda". Se sostituissimo la parola droga con la parola "depressione" o "alcol", "anoressia", il risultato non sarebbe differente. Perché il fuoco di questa storia è su tutti quegli eroi nascosti, di cui i giornali non parlano, che consumano la propria vita con la forza spaventosa dell'amore e dell'ottimismo. Marina è eroica perché si rialza sempre. Questa storia è estenuante sia a leggerla, sia a guardarla, perché ogni volta che vedi cadere la protagonista pensi che quella sia stata l'ultima. Invece lei si rialza. E ogni volta che lo fa, tu senti crescere anche in te, come essere umano, l'orgoglio e la voglia di credere.
D. Cosa fa di un'esperienza adolescenziale l'inizio dell'inferno?
R. Non credo che sia l'adolescenza il problema. La droga guadagna terreno in situazioni dove il giovane non ha stimoli. Credo che l'abbrutimento culturale generale e la mancanza di prospettive che ci circondano adesso siano parzialmente responsabili per questo enorme ritorno di fiamma di droghe come l'eroina, che è la droga "della felicità": la prendi e tutti i tuoi problemi scompaiono. I giovani hanno bisogno di non essere sottovalutati, di essere ascoltati, ma non con compassione, di essere responsabilizzati. Di essere circondati da bellezza, arte e cultura. Di riuscire a guardare la luna, anziché il dito.
D. La famiglia oggi ha perso il suo potere formativo/educativo? Insomma un figlio può raccontare il suo inferno ai genitori?
R. Credo che ogni famiglia sia una storia a sé. Ma, tracciando delle differenze, trovo che oggi i genitori allevino i figli assecondando troppo il narcisismo che caratterizza questa generazione. Noi siamo i figli dei genitori che hanno fatto la guerra, caricati del senso di colpa: "io non ho potuto studiare, tu sì. Io non ho potuto divertirmi, tu sì". I figli di oggi sono figli dei genitori frutto del benessere e mi sembra che la tendenza, oggi, sia più esortare i figli ad essere unici, diamanti rari in mezzo alla mediocrità, fare i ballerini, i cantanti, gli "artisti", andare in tv, su youtube, essere belli e ammirati. Questo carico di aspettative credo possa essere molto pesante per un giovane. I ragazzi sono allevati come narcisi in una società narcisistica. E Narciso non fa una bella fine, purtroppo.
D. La madre è tutto. E il padre, una volta assolti i doveri lavorativi, che ruolo assume?
R. Il padre è importantissimo. Sarebbe bello se questa distinzione di genere smettesse di essere categorica e le madri imparassero ad essere critiche, aspre e meno chiocce a volte, mentre i padri imparassero ad essere più affettivi ed empatici e a trasmettere ai figli anche il loro amore, oltre che spingerli a desiderare la loro stima.
D. A volte la verità è troppo forte da accettare che i genitori preferiscono prendersi "per il culo" da soli?
R. Chiunque si prende per il culo da solo, a volte. Si sa sempre quale sia la verità. Bisogna trovare dentro la forza e la saggezza di accettarla. Non è facile.
gb
www.teatring.it