Giovanni Sesia
Il suo nome è ormai conosciuto da circa una decina di anni. Le sue fotografie girano fra gallerie nazionali ed internazionali mostrando, denunciando un mondo ai margini, quasi dimenticato. Un passato che non è mai troppo lungi dal divenire attuale per poi spingersi, concettualmente, verso il futuro che l'artista sa problematico. Giovanni Sesia vive e lavora a Magenta e i suoi lavori hanno sempre a che fare inizialmente con una perdita che diviene ricordo. Il prendere atto di qualcosa che si è perso o si è in procinto di perdere, correndo o inseguendo uno sviluppo sempre meno in linea con i ritmi umani.
Ecco, la disumanizzazione dell'evo contemporaneo sembra possedere l'arte e lo spirito del nostro artista, il quale attraverso le sue fotografie fissa ciò che è poco considerato lasciato coperto dal tempo e dalla dimenticanza. I suoi lavori, sia i suoi studi/ricerche sugli istituti manicomiali o semplicemente il fissare attraverso l'obbiettivo oggetti appartenenti all'infanzia o i giocattoli dell'età adulta, nascondono sempre una necessità analitica nell'indagare come le virtus greche siano quasi scomparse o poco considerate dall'uomo attuale, il quale rincorrendo un finto benessere, riconosce solo individualismo, opportunismo, ipocrisia e omofobia. Il diverso, le minoranze spaventano tanto quanto spaventa il mettersi in discussione. E dalla denuncia la speranza che le società costituite da uomini facciano una virata nella direzione giusta.
D. L'esperienza all'ospedale psichiatrico di Novara: fra assenze e silenzi solo le tracce delle vite che erano sono bastate a ridare voce alle migliaia di persone rinchiuse nei manicomi perché diversi, anomali. Possiamo intendere la mostra ed il video documentario, figlio della medesima esperienza, come possibili "manifesti" sull'educazione all'alterità, alla sensibilizzazione al diverso e dunque un maggiore rispetto delle minoranze piuttosto che la loro ghettizzazione?
R. Il lavoro sulla condizione manicomiale non è da intendersi come un avventurarsi nel campo della psichiatria, un argomento che lascio volentieri agli addetti ai lavori. Il mio approccio è quello di un testimone che scopre un mondo di persone dimenticate e cancellate dalla società, storie raccontate, volti che lasciano intendere un dramma esistenziale. Il mio intento è di rendere metaforica questa rivalutazione degli "ultimi", metaforica nel senso che nella società attuale, la schiera degli esclusi è molto più ampia; non ci sono le mura o le cinghie di costrizione dei manicomi, ma la ghettizzazione è un dato di fatto, l'integrazione nel sistema è soprattutto data dallo stato sociale del soggetto e credo che nei prossimi anni il divario sarà sempre più ampio.
D. La luce, nei tuoi scatti, sembra se non la protagonista, la co-protagonista dei soggetti o delle narrazioni mute. La medesima importanza è data, tuttavia, anche alle ombre. Ad un insieme di tonalità scure si affiancano luminosità a volte chiare, spesso accese in modo da creare un forte contrasto e impatto proprio con il soggetto prescelto, caricandolo di un significato altro. Il trascendente che entra nell'immanente o mania estetizzante?
R. In una serie di opere esposte alla biennale di video fotografia di Alessandria, la luce è quella che proietta sulle pareti dei corridoi del manicomio le sbarre delle finestre. Ora invece, in questi lavori, la luce non ha più questa valenza negativa ma è una sorta di dualismo manicheo, l'oggetto protagonista del quadro si trova spesso ad essere investito da una luce radente e intensa che lo fa emergere dal fondo buio esaltandone la presenza.
D. Le tue foto presentano spesso delle aggiunte di colore, quasi sempre sulle tonalità del rosso e del blu. Dai un significato particolare a questi due colori?
R. Le mie fotografie sono prevalentemente in bianco e nero. Le aggiunte di rosso o blu danno quello scatto di colore come suggerimento ad una gamma vasta ma sintetizzata in questi due estremi. Sono un po' come l'alfa e l'omega del colore.
D. Il tuo ultimo lavoro è caratterizzato da una virata a livello iconografico. Se in precedenza gli eroi erano uomini comunissimi o "al di là" della norma, in "Livingthings" gli eroi sono robot, oggetti meccanici, giocattolini di legno. Dal passato si è passati al futuro. Dal rimpianto nostalgico di quello che stiamo perdendo si passa ad esaminare ciò che, grazie a questa perdita, diventeremo?
R. Nel mio precedente lavoro, ho sempre trattato l'oggetto per evocare la memoria della persona che l'ha posseduto ed ha lasciato traccia di sé. Ora è l'oggetto in sé che mi interessa con il suo carico di mistero.
D. I robottini giocattolo che tu presenti già trasformati possono intendersi come dei ready-made douchampiani, i quali tolti dal loro contesto ludico e infantile e fissati dall'occhio fotografico si caricano di possibili interpretazioni "nefaste" che tuttavia legano quest'ultimo lavoro ai tuoi precedenti. Anche per te, quindi, il rapporto con l'arte si basa su un "rendez-vous"?
R. La scelta dei robottini non è casuale. E' comunque il parlare di una disumanizzazione, è la tecnologia che si sostituisce all'uomo. Questi piccoli giochi che nella loro piccola dimensione, sembrano innocui, trasportati su grandi dimensioni, acquistano aspetti più terrificanti. Il soggetto è comunque sempre l'uomo.
D. Tre fotografi che consiglieresti.
R. Saudek per il suo dialogo con l'eros, Witkin per il suo dialogo con la morte, Mario Cravo Neto per l'intensità delle sue immagini.
www.giovannisesia.com
Ecco, la disumanizzazione dell'evo contemporaneo sembra possedere l'arte e lo spirito del nostro artista, il quale attraverso le sue fotografie fissa ciò che è poco considerato lasciato coperto dal tempo e dalla dimenticanza. I suoi lavori, sia i suoi studi/ricerche sugli istituti manicomiali o semplicemente il fissare attraverso l'obbiettivo oggetti appartenenti all'infanzia o i giocattoli dell'età adulta, nascondono sempre una necessità analitica nell'indagare come le virtus greche siano quasi scomparse o poco considerate dall'uomo attuale, il quale rincorrendo un finto benessere, riconosce solo individualismo, opportunismo, ipocrisia e omofobia. Il diverso, le minoranze spaventano tanto quanto spaventa il mettersi in discussione. E dalla denuncia la speranza che le società costituite da uomini facciano una virata nella direzione giusta.
D. L'esperienza all'ospedale psichiatrico di Novara: fra assenze e silenzi solo le tracce delle vite che erano sono bastate a ridare voce alle migliaia di persone rinchiuse nei manicomi perché diversi, anomali. Possiamo intendere la mostra ed il video documentario, figlio della medesima esperienza, come possibili "manifesti" sull'educazione all'alterità, alla sensibilizzazione al diverso e dunque un maggiore rispetto delle minoranze piuttosto che la loro ghettizzazione?
R. Il lavoro sulla condizione manicomiale non è da intendersi come un avventurarsi nel campo della psichiatria, un argomento che lascio volentieri agli addetti ai lavori. Il mio approccio è quello di un testimone che scopre un mondo di persone dimenticate e cancellate dalla società, storie raccontate, volti che lasciano intendere un dramma esistenziale. Il mio intento è di rendere metaforica questa rivalutazione degli "ultimi", metaforica nel senso che nella società attuale, la schiera degli esclusi è molto più ampia; non ci sono le mura o le cinghie di costrizione dei manicomi, ma la ghettizzazione è un dato di fatto, l'integrazione nel sistema è soprattutto data dallo stato sociale del soggetto e credo che nei prossimi anni il divario sarà sempre più ampio.
D. La luce, nei tuoi scatti, sembra se non la protagonista, la co-protagonista dei soggetti o delle narrazioni mute. La medesima importanza è data, tuttavia, anche alle ombre. Ad un insieme di tonalità scure si affiancano luminosità a volte chiare, spesso accese in modo da creare un forte contrasto e impatto proprio con il soggetto prescelto, caricandolo di un significato altro. Il trascendente che entra nell'immanente o mania estetizzante?
R. In una serie di opere esposte alla biennale di video fotografia di Alessandria, la luce è quella che proietta sulle pareti dei corridoi del manicomio le sbarre delle finestre. Ora invece, in questi lavori, la luce non ha più questa valenza negativa ma è una sorta di dualismo manicheo, l'oggetto protagonista del quadro si trova spesso ad essere investito da una luce radente e intensa che lo fa emergere dal fondo buio esaltandone la presenza.
D. Le tue foto presentano spesso delle aggiunte di colore, quasi sempre sulle tonalità del rosso e del blu. Dai un significato particolare a questi due colori?
R. Le mie fotografie sono prevalentemente in bianco e nero. Le aggiunte di rosso o blu danno quello scatto di colore come suggerimento ad una gamma vasta ma sintetizzata in questi due estremi. Sono un po' come l'alfa e l'omega del colore.
D. Il tuo ultimo lavoro è caratterizzato da una virata a livello iconografico. Se in precedenza gli eroi erano uomini comunissimi o "al di là" della norma, in "Livingthings" gli eroi sono robot, oggetti meccanici, giocattolini di legno. Dal passato si è passati al futuro. Dal rimpianto nostalgico di quello che stiamo perdendo si passa ad esaminare ciò che, grazie a questa perdita, diventeremo?
R. Nel mio precedente lavoro, ho sempre trattato l'oggetto per evocare la memoria della persona che l'ha posseduto ed ha lasciato traccia di sé. Ora è l'oggetto in sé che mi interessa con il suo carico di mistero.
D. I robottini giocattolo che tu presenti già trasformati possono intendersi come dei ready-made douchampiani, i quali tolti dal loro contesto ludico e infantile e fissati dall'occhio fotografico si caricano di possibili interpretazioni "nefaste" che tuttavia legano quest'ultimo lavoro ai tuoi precedenti. Anche per te, quindi, il rapporto con l'arte si basa su un "rendez-vous"?
R. La scelta dei robottini non è casuale. E' comunque il parlare di una disumanizzazione, è la tecnologia che si sostituisce all'uomo. Questi piccoli giochi che nella loro piccola dimensione, sembrano innocui, trasportati su grandi dimensioni, acquistano aspetti più terrificanti. Il soggetto è comunque sempre l'uomo.
D. Tre fotografi che consiglieresti.
R. Saudek per il suo dialogo con l'eros, Witkin per il suo dialogo con la morte, Mario Cravo Neto per l'intensità delle sue immagini.
www.giovannisesia.com