chiara e il cancro
Il sacro attraverso l'ordinario
Continua il palinsesto della XIX edizione del Festival Il Sacro attraverso l'ordinario proponendo nella giornata del 3 ottobre due spettacoli gradevolissimi in cui il sacro mi mischia al profano, la religione al folklore nella fantastica cornice settecentesca dell'ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, oggi adibito a spazio teatrale, fino al 12 ottobre.
L'atmosfera è surreale: i quattro lati porticati costituiscono una cornice naturale. Un quadro fatto di cielo reale - che avrebbe incuriosito perfino Magritte - fa da tetto a quello che era il vecchio ossario, oggi, in un'atmosfera meno infelice, luogo di incontri e scenario perfetto per spettacoli, chiacchiere, piccoli aperitivi pre-serata. Ed è proprio sotto uno degli archi che decorano i portici che gli Ammacunnà danno inizio all'evento. I discanti, il canto "a vatoccu", il canto "a distesa", il bei, il trallalero e tutte le forme musicali di quei canti di tradizione orale ritenuti "strani" costituiscono il repertorio che spazia dai canti sociali e popolari al lavoro, dalla resistenza alla tradizione anarchica e libertaria fino ai canti paraliturgici sparsi per tutta la penisola.
L'atmosfera è mesta, simile ad alcune atmosfere barocche e popolari. Le vesti delle cantanti si sono attualizzate, meno quelle del cantante, identica la forza e la passione per una certa vocalità. Canti "sgraziati" come una cura, un urlo che dal basso non smette di voler essere riconosciuto. Il popolo grida le proprie emozioni come sappiamo, il suo amore, la sua fede, la voglia di riscatto. Il popolo è passionale e disarmonie vocali traducono bene l'emotivo caos che altro non fa che gridare alla vita e all'amore nei canti sentimentali, alla gioia e alla libertà in quelli sul lavoro o sociali. Ed è proprio nella global music popolare che tutta l'Italia è riunita dal coro polifonico attraverso una visione passatista utile alla nostra identità futura.
A seguire il monologo presentato dalla Compagnia Atir di Milano. La faccia e l'esperienza sono di Chiara Stoppa, la regia di Mattia Fabris. Sul palco un tavolino - un pò letto un pò sedia a rotelle, un pò sostegno un pò rifugio - costituisce l'unico elemento scenografico. Il centro è lei e la sua battaglia contro il cancro, il suo sentirsi impotente e poi d'un tratto potentissima. Il suo abbandonarsi ai medici e il suo fan..lo a tutto quando a smesso di sentirsi solo cancro e ha riscoperto tutto il suo corpo, il suo essere viva, la sua capacità di scegliere. Certo non deve essere facile scoprirsi malata a soli 26 anni, la speranza che contraddistingue questi anni, spera di rientrare nell'80% di quelli che supereranno positivamente la chemioterapia. E quando dopo sei mesi si scopre che non è cosi? Ovviamente vengono i brividi, la morte sembra sempre più vicina e dunque è facile perdersi, lasciarci in balia degli eventi..
E mentre tutti avrebbero esposto dolore e sofferenze, sperando in una commovente compassione del pubblico, lei cosa fa insieme a Fabbris? Entrambi decidono di ridere, di usare il riso come elemento dis-sacratore. La risata folle che tutto annienta, ride di sè, della malattia, della serietà con cui tutto diventa un tabù. Usano la migliore tradizione dell'ironia come arma, che da Socrate a Pirandello sfoggia intelligenza e acume per dar vita ad una commedia che nasconde in seno la tragedia. Si ride certo - e come non si potrebbe con quel vulcano che è la Stoppa sul palco - ma le risate via via si smorzano con lo scioglimento del dramma. Torna il sorriso amaro dal sapore agrodolce: quanto è ingiusta la vita potrebbe dire chiunque e Chiara cosa dice a se stessa? Non sono solo cancro e quindi non sarò mai un topino da laboratorio, la mia vita insieme al mio corpo sono miei e voglio scegliere anche se questo vorrebbe dire morire.
Mentre tutti potrebbero pensare ad un suicidio senza le cure, si dimentica dell'estremo potere curatore del nostro cervello, da cui tutto è generato. E quando sembrava peggiorare, la forza di volontà vince sul cancro e Chiara è sul palco a raccontarci che i miracoli non avvengono sono nelle chiese. Spostando cosi il sacro e la sua visione lontano da una dimensione trascendentale ad una prettamente immanente e quotidiana - che per altro è lo scopo geniale del festival -. Il vero miracolo è la vita con le sue complicazioni, le sue battaglie quotidiane, il suo battere i pugni inseguendo qualcosa di alto, mettersi in gioco, sorridere nella gestione e nella trasformazione del dolore.
L'atmosfera è surreale: i quattro lati porticati costituiscono una cornice naturale. Un quadro fatto di cielo reale - che avrebbe incuriosito perfino Magritte - fa da tetto a quello che era il vecchio ossario, oggi, in un'atmosfera meno infelice, luogo di incontri e scenario perfetto per spettacoli, chiacchiere, piccoli aperitivi pre-serata. Ed è proprio sotto uno degli archi che decorano i portici che gli Ammacunnà danno inizio all'evento. I discanti, il canto "a vatoccu", il canto "a distesa", il bei, il trallalero e tutte le forme musicali di quei canti di tradizione orale ritenuti "strani" costituiscono il repertorio che spazia dai canti sociali e popolari al lavoro, dalla resistenza alla tradizione anarchica e libertaria fino ai canti paraliturgici sparsi per tutta la penisola.
L'atmosfera è mesta, simile ad alcune atmosfere barocche e popolari. Le vesti delle cantanti si sono attualizzate, meno quelle del cantante, identica la forza e la passione per una certa vocalità. Canti "sgraziati" come una cura, un urlo che dal basso non smette di voler essere riconosciuto. Il popolo grida le proprie emozioni come sappiamo, il suo amore, la sua fede, la voglia di riscatto. Il popolo è passionale e disarmonie vocali traducono bene l'emotivo caos che altro non fa che gridare alla vita e all'amore nei canti sentimentali, alla gioia e alla libertà in quelli sul lavoro o sociali. Ed è proprio nella global music popolare che tutta l'Italia è riunita dal coro polifonico attraverso una visione passatista utile alla nostra identità futura.
A seguire il monologo presentato dalla Compagnia Atir di Milano. La faccia e l'esperienza sono di Chiara Stoppa, la regia di Mattia Fabris. Sul palco un tavolino - un pò letto un pò sedia a rotelle, un pò sostegno un pò rifugio - costituisce l'unico elemento scenografico. Il centro è lei e la sua battaglia contro il cancro, il suo sentirsi impotente e poi d'un tratto potentissima. Il suo abbandonarsi ai medici e il suo fan..lo a tutto quando a smesso di sentirsi solo cancro e ha riscoperto tutto il suo corpo, il suo essere viva, la sua capacità di scegliere. Certo non deve essere facile scoprirsi malata a soli 26 anni, la speranza che contraddistingue questi anni, spera di rientrare nell'80% di quelli che supereranno positivamente la chemioterapia. E quando dopo sei mesi si scopre che non è cosi? Ovviamente vengono i brividi, la morte sembra sempre più vicina e dunque è facile perdersi, lasciarci in balia degli eventi..
E mentre tutti avrebbero esposto dolore e sofferenze, sperando in una commovente compassione del pubblico, lei cosa fa insieme a Fabbris? Entrambi decidono di ridere, di usare il riso come elemento dis-sacratore. La risata folle che tutto annienta, ride di sè, della malattia, della serietà con cui tutto diventa un tabù. Usano la migliore tradizione dell'ironia come arma, che da Socrate a Pirandello sfoggia intelligenza e acume per dar vita ad una commedia che nasconde in seno la tragedia. Si ride certo - e come non si potrebbe con quel vulcano che è la Stoppa sul palco - ma le risate via via si smorzano con lo scioglimento del dramma. Torna il sorriso amaro dal sapore agrodolce: quanto è ingiusta la vita potrebbe dire chiunque e Chiara cosa dice a se stessa? Non sono solo cancro e quindi non sarò mai un topino da laboratorio, la mia vita insieme al mio corpo sono miei e voglio scegliere anche se questo vorrebbe dire morire.
Mentre tutti potrebbero pensare ad un suicidio senza le cure, si dimentica dell'estremo potere curatore del nostro cervello, da cui tutto è generato. E quando sembrava peggiorare, la forza di volontà vince sul cancro e Chiara è sul palco a raccontarci che i miracoli non avvengono sono nelle chiese. Spostando cosi il sacro e la sua visione lontano da una dimensione trascendentale ad una prettamente immanente e quotidiana - che per altro è lo scopo geniale del festival -. Il vero miracolo è la vita con le sue complicazioni, le sue battaglie quotidiane, il suo battere i pugni inseguendo qualcosa di alto, mettersi in gioco, sorridere nella gestione e nella trasformazione del dolore.
gb
XIX Festival Internazionale Il Sacro attraverso l'ordinario
San Pietro in Vincoli Zona Teatro
Ammacunnà
La Scighera - Voci di mezzo
Compagnia ATIR
Il ritratto della salute
di Mattia Fabris e Chiara Stoppa
con Chiara Stoppa
Produzione Compagnia ATIR
San Pietro in Vincoli Zona Teatro
Ammacunnà
La Scighera - Voci di mezzo
Compagnia ATIR
Il ritratto della salute
di Mattia Fabris e Chiara Stoppa
con Chiara Stoppa
Produzione Compagnia ATIR