Fra Arte e Vita
la linea sottile delle dipendenze
Erano gli anni 60. La guerra fredda e le sue conseguenze scorrevano dentro gli schermi del mondo civilizzato. I figli si contrapponevano ai genitori, le tradizioni messe in discussione cedevano il passo al desiderio di un cambiamento radicale. Meno ipocrita e borghese. Più giusto ed egalitario.
Make love not war, gridavano tutti i giovani che manifestavano in quegli anni. Tutti stanchi di una fine a metà del secondo conflitto mondiale che, cambiato il suo scenario, non finiva con il commettere atrocità sulla popolazione civile, in nome di palesi interessi economico-politici, mascherati - già allora - dal desiderio, "legittimo", di esportare democrazia, o peggio, dalla volontà altruista di difendere territori strategici.
L'occidente perdeva colpi sotto le grida dei suoi figli più piccoli: i milioni di giovani e giovanissimi che rivendicavano ai governi, alle famiglie, alle scuole gli stessi ideali e precetti che loro stessi avevano inculcato loro. A quelli, e alle loro certezze - che chiaramente si erano smentite, fallendo - opponevano una morale non morale, sfacciata e sopra le righe, che abusava di droghe e professava il sesso libero. Il mondo era divenuto a fiori e la musica e l'arte un forte mezzo di denuncia.
L'America, la patria che vide per prima il nascere di questi fermenti rivoluzionari, negli stessi anni, oltre al fronte politico-sociale, metteva in discussione anche l'idea di arte e dell'oggetto museale. Certo niente di nuovo, già con il Dada e Duchamp tutto si era detto, seppur in sordina; ma, con le due guerre di mezzo, la memoria si perse, in modo che la Pop art potè vantare, fra i 50 e i 60, il primato in originalità. Però una differenza esiste.
Il Dada, o almeno una parte di esso, puntava sul nulla assoluto nella ricerca dello stato "zero", inseguendo un mondo altro. Questo movimento artistico, nato nel 1916 in Svizzera, tra quella gente che tentava disperatamente di sfuggire alla guerra, andava contro il conflitto stesso, dunque contro il mondo di allora. A quello voleva idealmente sovrapporre il suo.
Al contrario, nella Pop Art, e in Warhol soprattutto, l'attenzione e l'interesse verso il mondo esterno era totale. L'arte, quindi, finì per essere generata dalla stessa società dei consumi dell'epoca, attraverso un processo di imitazione della vita e del suo quotidiano, eletto qui ad opera d'arte. L'atto creativo divenne così comprensibile a tutti, riconoscibile da ognuno, ma non per tutti fu immediato il meccanismo celato che faceva, di questo tipo di arte o di linguaggio, una denuncia bella e buona. Diretta. Warhol sbatteva in faccia alla società di allora proprio i suoi punti di forza, che inevitabilmente si presentavano in tutta la loro fragilità. Le icone del cinema, della musica e della politica, insieme alle conquiste e alle sventure della società dei consumi, divennero il punto centrale della sua contorta poetica. Questo ci date, questo vi meritate, sembra dirci Warhol.
Il luogo in cui si discuteva, si creava e si mettevano in pratica questi nuovi ideali artistici nella New York degli anni 60-70, fu la Factory creata da Warhol nel 1962. Definita, da chi la frequentava, come la Silver Factory, perchè coperta con carta stagnola e vernice di color argento, la fabbrica era un luogo di incontro di artisti e musicisti come Lou Reed, Bob Dylan, Truman Capotee, Mick Jagger. Meno frequenti, come visitatori, furono Salvador Dalí e Allen Ginsberg. Al suo interno si producevano serigrafie, si preparava il cinema che di lì a poco sarebbe stato definito underground, si produceva arte. Si consumava anche tanta droga - pensiamo all'uso sempre più frequente in quegli anni di anfetamine - si facevano orge in nome di una sessualità libera e promiscua, tanto che, offendendo la morale comune, i primi film della Factory furono censurati per oscenità. Si univa, dunque, l'arte alla vita e, della vita, se ne faceva un'opera d'arte che, in quanto tale, nella nuova accezione, andava consumata!
Non differentemente, dunque, dagli altri giovani rivoluzionari sopracitati, che preferivano le comuni, ai locali chiusi della Factory, il modo di reagire ad uno stato di cose e costrizioni era pressapoco il medesimo. Sesso libero e droghe a volontà. Queste due opzioni imbottite di ottimi slogan e di ideali che rivendicavano perfino le idee partorite dalla rivoluzione francese, contribuirono a far in modo, nei fatti, che i giovani di allora smettessero di essere dipendenti da un qualcosa che non avevano scelto loro, ossia la tradizione, la guerra, l'imperialismo, per dipendere da qualcosa che avevano scelto loro stessi.
Ma, in questo modo, non smisero di essere dipendenti! Dipesero dai loro nuovi ideali, di pace e amore, di gioia e convivenza pacifica, furono condizionati dal desiderio di una vita felice che consisteva in un eccesso di libertà e che divenne, nei fatti, ingestibile.
L'evasione e la realizzazione di quel mondo viveva solo nella mente annebbiata dall'uso delle droghe, dall'inseguire un mero ideale. Certo è che, il '68, fu fondamentale per alcune conquiste sociali, politiche e dei diritti civili di ognuno. E qui non si vuole nemmeno demonizzare l'uso di droghe, che anzi sembrano essere state assunte in ogni contesto storico ed da ogni strato della popolazione ma, piuttosto, si preferisce leggere quei fatti alla luce delle loro conseguenze, dell'oggi insomma.
Si parte da un dato di fatto: quei giovani avevano grandi speranze. Le due guerre portarono, con la loro fine, un forte senso di aggregazione e di solidarietà giovanile, creando così un enorme potenziale che rimase però inattivo. Un'idea più chiara possiamo farcela se pensiamo che una parte dei giovani che vissero in quegli anni confluirono nel sistema, anche se parte di loro lo contestava - ma sempre dal di dentro; l'altra morì a causa delle droghe. Tutti e due le categorie persero la loro "guerra". Tutto questo per dire, inoltre, che la libertà, che i ragazzi (e gli artisti ragazzi di allora) ricercavano e ostentavano durante quegli anni, probabilmente fu un concetto non compreso appieno.
Dove per libertà si intende responsabilità per sé e per gli altri, che non vuole dire necessariamente demonizzare o non usare droghe, ma semplicemente tentare di essere coerenti con i propri ideali. Combattere con sé stessi quotidianamente, imponendosi forza di volontà. Non ritornelli, canzonette, frasi shock che poi si scoprono nascondere un libertinaggio sfrenato e una mancanza assoluta di autocontrollo, nonché un adolescenza che si protrae per tutta la vita.
Il punto focale di tutto risiede nel fatto che oggi le generazioni odierne ricordano di quegli anni solo la liberalizzazione delle droghe, del sesso e il contrasto ormai anacronistico fra comunismo e fascismo. Vivono all'ombra di una idea commercializzata e patinata, non comprendendo appieno che quello che loro ammirano è esattamente la contro parte negativa di quegli anni. O meglio, quel desiderio di pace, di comprensione, di evasione da uno stato di vita ovattato, rimase per certi versi, come già accennato, in potenza, vittima delle sue geniali intuizioni.
La Pop art finì per imitare se stessa, divenendo seriale, acconsentendo a legittimare la società che appena prima aveva criticato. I ragazzi non artisti, nella speranza di una vita migliore per il mondo intero, smisero di sperare prima di tutto per loro stessi, in favore, invece, di una qualsiasi causa collettiva.
Questi adolescenti di allora, non-artisti, bloccati nel limbo dell'ideale a tutti i costi e in ogni modo, fuggirono innanzitutto dalla tradizione e dal mondo dei loro padri e dei loro finti valori, così come gli artisti veri e propri si opposero ad un'arte elitaria e retinica, volendo imporre la loro in-dipendenza.
In seguito, sia gli uni che gli altri finirono, al contrario, per cambiare oggetto della loro dipendenza, creando dei valori che neanche loro sapevano o volevano mettere in pratica. Così, fuggendo da ogni tipo di responsabilità individuale per rincorrere responsabilità collettive, smisero di coltivare l'indispensabile solitudine che serve per formare una propria personalità.
Da quanto detto emerge che la dipendenza non è solo legata ad un uso smodato di droghe o alcolici, divenendo fisica. Può essere dettata anche dalla ricerca di un ideale che diventa più vicino con un piccolo aiuto.
Le dipendenze non sono solo illegali, ma esiste un'infinita quantità di future dipendenze del tutto legali - pensiamo ai sistemi farmaceutici con gli psicofarmaci e le loro anfetamine, giustamente dosate, oppure al tabacco e alla caffeina.
La verità è che le dipendenze servono, nella loro epifania, a colmare una situazione di disagio, di impotenza. Servono a coprire il dolore che si prova vivendo. La gente dipende dalla propria paura del dolore. Non lo sopporta e cerca di evitarlo. Le droghe, il vino e gli alcolici, sono sempre esistiti e gli uomini ne hanno sempre fatto uso.
Unico dato recente è il disagio che l'uomo prova oggi. Frutto e conseguenza dello sviluppo della rivoluzione industriale. Proprio quando l'intero occidente (a partire dal Settecento) stava organizzandosi per dare una forma ordinata alla futura società civile, i civili: uomini e creature, persero, allora ma ancora di più oggi, il contatto con la natura e con le altre creature. Persero la consapevolezza di sé. Unendosi in nazioni e stati, il gruppo finì per prevalere sull'individuo, sfalsando completamente la vita intima di ognuno. Alla fine dell'800 il disagio e la decadenza dell'ideale positivista andava incrinandosi, dando vita ai poeti maledetti, ai simbolisti, a tutte le avanguardie. Quell'insieme, cioè, di uomini-artisti che rivendicavano un uso più libero della propria vita e della loro arte.
Che la società civile controlli l'individuo è ormai cosa nota, ma quello che ancora dobbiamo accertare è cosa innesca il sistema delle dipendenze. Chi le provoca o chi le promuove. Se servono a qualcosa o a chi. È qualcosa che dipende dalla volontà di ognuno o è indotto da un sistema che fagocita sé stesso?
Domande aperte che però pongono una riflessione. Ognuno di noi dovrebbe affermare di dipendere dal proprio desiderio di vivere. La vita, che da sempre è stato l'unione dei contrasti, dell'in e iang, dell'istinto di Eros (vita) che si scontra con quello di Thanathos (morte), non deve essere necessariamente bianca o nera, ma dovrebbe tendere a quel punto di equilibrio dove Apollo (la purezza, l'ideale) si scontra con Dioniso (le impurità, le cose abbiette di cui l'uomo è capace e portatore). È questo non è cosa semplice: creare un punto stabile fra la nostra luce e le nostre ombre. I più soccombono divenendo degli eroi dell'assurdo (come tanti artisti, scrittori, musicisti).
Nell'incapacità di gestire il dolore e quindi le proprie emozioni decidono di rimanere bambini, nell'accezione più negativa possibile; professando a parole una vita felice e piena di gratificazioni che si scontra, nella realtà, con la loro vita fatta di decadenza e abusi, di mancanza di rispetto verso gli altri e soprattutto verso sé stessi. I giovani del 68 pur vincendo storicamente, persero personalmente. Si innamorarono dei loro ideali a tal punto da mettere da parte anche loro stessi.
Vanno benissimo dunque le dipendenze, alcune più evidenti altre meno, ma la prima fra tutte non dovrebbe essere la dipendenza da noi stessi?
Make love not war, gridavano tutti i giovani che manifestavano in quegli anni. Tutti stanchi di una fine a metà del secondo conflitto mondiale che, cambiato il suo scenario, non finiva con il commettere atrocità sulla popolazione civile, in nome di palesi interessi economico-politici, mascherati - già allora - dal desiderio, "legittimo", di esportare democrazia, o peggio, dalla volontà altruista di difendere territori strategici.
L'occidente perdeva colpi sotto le grida dei suoi figli più piccoli: i milioni di giovani e giovanissimi che rivendicavano ai governi, alle famiglie, alle scuole gli stessi ideali e precetti che loro stessi avevano inculcato loro. A quelli, e alle loro certezze - che chiaramente si erano smentite, fallendo - opponevano una morale non morale, sfacciata e sopra le righe, che abusava di droghe e professava il sesso libero. Il mondo era divenuto a fiori e la musica e l'arte un forte mezzo di denuncia.
L'America, la patria che vide per prima il nascere di questi fermenti rivoluzionari, negli stessi anni, oltre al fronte politico-sociale, metteva in discussione anche l'idea di arte e dell'oggetto museale. Certo niente di nuovo, già con il Dada e Duchamp tutto si era detto, seppur in sordina; ma, con le due guerre di mezzo, la memoria si perse, in modo che la Pop art potè vantare, fra i 50 e i 60, il primato in originalità. Però una differenza esiste.
Il Dada, o almeno una parte di esso, puntava sul nulla assoluto nella ricerca dello stato "zero", inseguendo un mondo altro. Questo movimento artistico, nato nel 1916 in Svizzera, tra quella gente che tentava disperatamente di sfuggire alla guerra, andava contro il conflitto stesso, dunque contro il mondo di allora. A quello voleva idealmente sovrapporre il suo.
Al contrario, nella Pop Art, e in Warhol soprattutto, l'attenzione e l'interesse verso il mondo esterno era totale. L'arte, quindi, finì per essere generata dalla stessa società dei consumi dell'epoca, attraverso un processo di imitazione della vita e del suo quotidiano, eletto qui ad opera d'arte. L'atto creativo divenne così comprensibile a tutti, riconoscibile da ognuno, ma non per tutti fu immediato il meccanismo celato che faceva, di questo tipo di arte o di linguaggio, una denuncia bella e buona. Diretta. Warhol sbatteva in faccia alla società di allora proprio i suoi punti di forza, che inevitabilmente si presentavano in tutta la loro fragilità. Le icone del cinema, della musica e della politica, insieme alle conquiste e alle sventure della società dei consumi, divennero il punto centrale della sua contorta poetica. Questo ci date, questo vi meritate, sembra dirci Warhol.
Il luogo in cui si discuteva, si creava e si mettevano in pratica questi nuovi ideali artistici nella New York degli anni 60-70, fu la Factory creata da Warhol nel 1962. Definita, da chi la frequentava, come la Silver Factory, perchè coperta con carta stagnola e vernice di color argento, la fabbrica era un luogo di incontro di artisti e musicisti come Lou Reed, Bob Dylan, Truman Capotee, Mick Jagger. Meno frequenti, come visitatori, furono Salvador Dalí e Allen Ginsberg. Al suo interno si producevano serigrafie, si preparava il cinema che di lì a poco sarebbe stato definito underground, si produceva arte. Si consumava anche tanta droga - pensiamo all'uso sempre più frequente in quegli anni di anfetamine - si facevano orge in nome di una sessualità libera e promiscua, tanto che, offendendo la morale comune, i primi film della Factory furono censurati per oscenità. Si univa, dunque, l'arte alla vita e, della vita, se ne faceva un'opera d'arte che, in quanto tale, nella nuova accezione, andava consumata!
Non differentemente, dunque, dagli altri giovani rivoluzionari sopracitati, che preferivano le comuni, ai locali chiusi della Factory, il modo di reagire ad uno stato di cose e costrizioni era pressapoco il medesimo. Sesso libero e droghe a volontà. Queste due opzioni imbottite di ottimi slogan e di ideali che rivendicavano perfino le idee partorite dalla rivoluzione francese, contribuirono a far in modo, nei fatti, che i giovani di allora smettessero di essere dipendenti da un qualcosa che non avevano scelto loro, ossia la tradizione, la guerra, l'imperialismo, per dipendere da qualcosa che avevano scelto loro stessi.
Ma, in questo modo, non smisero di essere dipendenti! Dipesero dai loro nuovi ideali, di pace e amore, di gioia e convivenza pacifica, furono condizionati dal desiderio di una vita felice che consisteva in un eccesso di libertà e che divenne, nei fatti, ingestibile.
L'evasione e la realizzazione di quel mondo viveva solo nella mente annebbiata dall'uso delle droghe, dall'inseguire un mero ideale. Certo è che, il '68, fu fondamentale per alcune conquiste sociali, politiche e dei diritti civili di ognuno. E qui non si vuole nemmeno demonizzare l'uso di droghe, che anzi sembrano essere state assunte in ogni contesto storico ed da ogni strato della popolazione ma, piuttosto, si preferisce leggere quei fatti alla luce delle loro conseguenze, dell'oggi insomma.
Si parte da un dato di fatto: quei giovani avevano grandi speranze. Le due guerre portarono, con la loro fine, un forte senso di aggregazione e di solidarietà giovanile, creando così un enorme potenziale che rimase però inattivo. Un'idea più chiara possiamo farcela se pensiamo che una parte dei giovani che vissero in quegli anni confluirono nel sistema, anche se parte di loro lo contestava - ma sempre dal di dentro; l'altra morì a causa delle droghe. Tutti e due le categorie persero la loro "guerra". Tutto questo per dire, inoltre, che la libertà, che i ragazzi (e gli artisti ragazzi di allora) ricercavano e ostentavano durante quegli anni, probabilmente fu un concetto non compreso appieno.
Dove per libertà si intende responsabilità per sé e per gli altri, che non vuole dire necessariamente demonizzare o non usare droghe, ma semplicemente tentare di essere coerenti con i propri ideali. Combattere con sé stessi quotidianamente, imponendosi forza di volontà. Non ritornelli, canzonette, frasi shock che poi si scoprono nascondere un libertinaggio sfrenato e una mancanza assoluta di autocontrollo, nonché un adolescenza che si protrae per tutta la vita.
Il punto focale di tutto risiede nel fatto che oggi le generazioni odierne ricordano di quegli anni solo la liberalizzazione delle droghe, del sesso e il contrasto ormai anacronistico fra comunismo e fascismo. Vivono all'ombra di una idea commercializzata e patinata, non comprendendo appieno che quello che loro ammirano è esattamente la contro parte negativa di quegli anni. O meglio, quel desiderio di pace, di comprensione, di evasione da uno stato di vita ovattato, rimase per certi versi, come già accennato, in potenza, vittima delle sue geniali intuizioni.
La Pop art finì per imitare se stessa, divenendo seriale, acconsentendo a legittimare la società che appena prima aveva criticato. I ragazzi non artisti, nella speranza di una vita migliore per il mondo intero, smisero di sperare prima di tutto per loro stessi, in favore, invece, di una qualsiasi causa collettiva.
Questi adolescenti di allora, non-artisti, bloccati nel limbo dell'ideale a tutti i costi e in ogni modo, fuggirono innanzitutto dalla tradizione e dal mondo dei loro padri e dei loro finti valori, così come gli artisti veri e propri si opposero ad un'arte elitaria e retinica, volendo imporre la loro in-dipendenza.
In seguito, sia gli uni che gli altri finirono, al contrario, per cambiare oggetto della loro dipendenza, creando dei valori che neanche loro sapevano o volevano mettere in pratica. Così, fuggendo da ogni tipo di responsabilità individuale per rincorrere responsabilità collettive, smisero di coltivare l'indispensabile solitudine che serve per formare una propria personalità.
Da quanto detto emerge che la dipendenza non è solo legata ad un uso smodato di droghe o alcolici, divenendo fisica. Può essere dettata anche dalla ricerca di un ideale che diventa più vicino con un piccolo aiuto.
Le dipendenze non sono solo illegali, ma esiste un'infinita quantità di future dipendenze del tutto legali - pensiamo ai sistemi farmaceutici con gli psicofarmaci e le loro anfetamine, giustamente dosate, oppure al tabacco e alla caffeina.
La verità è che le dipendenze servono, nella loro epifania, a colmare una situazione di disagio, di impotenza. Servono a coprire il dolore che si prova vivendo. La gente dipende dalla propria paura del dolore. Non lo sopporta e cerca di evitarlo. Le droghe, il vino e gli alcolici, sono sempre esistiti e gli uomini ne hanno sempre fatto uso.
Unico dato recente è il disagio che l'uomo prova oggi. Frutto e conseguenza dello sviluppo della rivoluzione industriale. Proprio quando l'intero occidente (a partire dal Settecento) stava organizzandosi per dare una forma ordinata alla futura società civile, i civili: uomini e creature, persero, allora ma ancora di più oggi, il contatto con la natura e con le altre creature. Persero la consapevolezza di sé. Unendosi in nazioni e stati, il gruppo finì per prevalere sull'individuo, sfalsando completamente la vita intima di ognuno. Alla fine dell'800 il disagio e la decadenza dell'ideale positivista andava incrinandosi, dando vita ai poeti maledetti, ai simbolisti, a tutte le avanguardie. Quell'insieme, cioè, di uomini-artisti che rivendicavano un uso più libero della propria vita e della loro arte.
Che la società civile controlli l'individuo è ormai cosa nota, ma quello che ancora dobbiamo accertare è cosa innesca il sistema delle dipendenze. Chi le provoca o chi le promuove. Se servono a qualcosa o a chi. È qualcosa che dipende dalla volontà di ognuno o è indotto da un sistema che fagocita sé stesso?
Domande aperte che però pongono una riflessione. Ognuno di noi dovrebbe affermare di dipendere dal proprio desiderio di vivere. La vita, che da sempre è stato l'unione dei contrasti, dell'in e iang, dell'istinto di Eros (vita) che si scontra con quello di Thanathos (morte), non deve essere necessariamente bianca o nera, ma dovrebbe tendere a quel punto di equilibrio dove Apollo (la purezza, l'ideale) si scontra con Dioniso (le impurità, le cose abbiette di cui l'uomo è capace e portatore). È questo non è cosa semplice: creare un punto stabile fra la nostra luce e le nostre ombre. I più soccombono divenendo degli eroi dell'assurdo (come tanti artisti, scrittori, musicisti).
Nell'incapacità di gestire il dolore e quindi le proprie emozioni decidono di rimanere bambini, nell'accezione più negativa possibile; professando a parole una vita felice e piena di gratificazioni che si scontra, nella realtà, con la loro vita fatta di decadenza e abusi, di mancanza di rispetto verso gli altri e soprattutto verso sé stessi. I giovani del 68 pur vincendo storicamente, persero personalmente. Si innamorarono dei loro ideali a tal punto da mettere da parte anche loro stessi.
Vanno benissimo dunque le dipendenze, alcune più evidenti altre meno, ma la prima fra tutte non dovrebbe essere la dipendenza da noi stessi?