Io, mai niente
con nessuno avevo fatto
Scagliamo la prima pietra
Giovanissimi e brillanti, preparati e profondi. Ironici e sarcastici i protagonisti di Io, niente con nessuno avevo fatto. Monologo trasformatosi in trio che come un vulcano si impone alla critica e al pubblico. Prima esperienza di Joele Anastasi, lo spettacolo vince da subito svariati premi e i Vuccirìa Teatro sono pronti a far conoscere il loro verbo al "Continente". A Torino al Tedacà, per la stagione Bell'Arte il 7 marzo, si denuncia l'ignoranza combattendo l'omofobia. Il "sud" è una condizione mentale..
Io, mai niente con nessuno avevo fatto è l'Etna che erutta, il "baccano" che si sente per le vie dei mercati, la voglia di resistenza ad una condizione stantia e lenta a cambiare. E' un urlo contro l'indifferenza che alla violenza preferisce la compassione (provare con), all'ignoranza la consapevolezza, ai pregiudizi le scelte ponderate. "I siciliani su genti i medda" grida l'unica protagonista donna. Non solo denuncia facile, quindi, contro l'omofobia, ma critica e sdegno ne confronti di un'umanità sub-umana: realtà in cui la madre "buttana" si fa "fottere" da tutti i componenti maschi della famiglia, nella stalla. Il cugino che rischia una "gang bang" non voluta dai parenti. Il sesso che diviene un'esigenza animale, il rispetto per la cosa amata un optional. "Si malato, fimminedda, ricchiuni, frocio di merda, ricchiella, sgaggiatu" sono solo alcuni dei complimenti che vengono urlati nelle piazze e nelle vie, spifferati con indifferenza alle orecchie agli amici, dette con bonaria cattiveria "davanti e bisola di casi e di bar". L'omosessuale, le prostitute per diletto e passione, "i babbi du paisi" o meglio tutti quelli che rientrano nella categoria dei "freaks", per consuetudine posso essere derisi pubblicamente, secondo alcuni, in qualsiasi "sud" del mondo si pensa sia un diritto innato.
Uno spettacolo performativo dal testo sonoro in quanto il siciliano è una lingua musicalissima e i siciliani degli ottimi attori inconsapevoli. Tutto è pantomima e tragedia nella loro quotidianità e, non è un caso, che daEmma Dante a Pirrotta, da Zappalà fino alle parole della Consoli, la sicilianità sia stata oggetto di riflessione e denuncia adattandosi perfettamente alle esigenze teatrali. I Vuccirìa entrano di diritto in questo filone di siciliani che rendono orgogliosi gli isolani e che si auto denunciano, che guardano il reale e percepiscono dei cortocircuiti. Certo vogliono rompere, scardinare, scuotere, demolire per ricostruire. Che cosa?
Scopriamolo con il regist'attore Joele Anastasi.
D. Giovanissima Compagnia che al suo esordio esplode raccontando di "margini". Un sud geografico che si fa sinonimo di un "sud" delle coscienze?
R. Certamente il "Sud" è una condizione interiore dalla quale si può difficilmente prescindere. Almeno nel nostro caso è quasi impossibile. La nostra terra è come una madre che culla i propri figli per condurli in un sonno eterno. E' amore e senso di protezione che si trasforma velocemente in una lenta agonia. La storia che noi raccontiamo svela delle dinamiche umane che non necessariamente sono inscrivibili ad una zona geografica specifica. E' amore puro che si intreccia ad un destino ineluttabile che spinge verso la morte, come nei più tradizionali drammi. Solo che certamente abbiamo sfruttato la nostra terra per sporcarci le mani fino in fondo. La Sicilia è una lente d'ingrandimento che svela una natura profonda delle cose, dove ogni cosa che accade è mastodontica, grande, pesante. Quasi come fosse pronta a trascinarti giù con lei, negli abissi del mare, per rimanere nascosta in eterno.
D. Il monologo conquista la critica e vince dei premi. Inizio col botto... e via alla tournée! La necessità della denuncia.
R. Vuccirìa teatro nasce dalla necessità di preservare la nostra autenticità. Oggi tutto è omologazione e standardizzazione. Anche l'industria dell'arte sforna eserciti di esecutori ripuliti e svuotati. Anime in potenza "sensibili" che finiscono per aderire ad un modello artistico e culturale che non li rappresenta. Avevamo voglia di parlare, e di trovare la nostra via d'accesso per l'Arte. Ed è difficile oggi iniziare un percorso di compagnia. Ma tremendamente stimolante. Oggi fare Arte per noi significa lottare, resistere a quel disfacimento. Probabilmente per cercare di cambiare il mondo, o di sopravvivere da esso. Siamo giovani e la nostra generazione sa che per esistere deve lottare in maniera brutale. Non c'è altrimenti via d'uscita. Quindi in fondo siamo fortunati perché dobbiamo scegliere solo tra due cose, o vivi o morti.
D. E il dialetto siculo piace a quanto pare...
R. Piace probabilmente perché la gente riconosce in esso il nostro tentativo di essere autentici. Un pezzettino del nostro cuore regalato a chi sceglie di sedersi per ascoltare la nostra storia.
D. Inizialmente uno, poi il trio compatto: l'incontro con Federica Carruba Toscano e Enrico Sortino e, le modifiche al testo.
R. Il monologo dal quale nasce lo spettacolo è stato certamente un ottimo banco di prova. A quei tempi c'erano solo tre fari, un rossetto e la storia. O meglio il nucleo della storia. Perché in effetti il monologo ripercorreva lo stesso arco narrativo dello spettacolo lungo. Raccontava di tutti e tre i personaggi e delle dinamiche tra questi personaggi. E così da quella stessa storia siamo partiti. Qualche faro in più, una cassapanca, ma stavolta in tre sulla scena. In molti si domandavano se il "salto" nel lungo non comportasse il rischio di far perdere d'intensità alla storia, di "allungare" il brodo e basta. Oggi ripensando alle tappe di questo spettacolo, ci rendiamo conto di quanto sia avvenuto un "incastro" magico tra tanti aspetti. Abbiamo coltivato il nostro frutto. Ed il nostro frutto è forse una cipolla, che si compone strato dopo strato per diventare un corpo unico. Noi tre in scena siamo un corpo unico. C'è molta intesa e molta fiducia e sappiamo che tutti e tre insieme possiamo essere quel terremoto che non saremmo se fossimo separati. Tre pezzi di uno stesso cuore.
D. Si può o non si può parlare di omosessualità in Sicilia? Cosa scardina nella quotidianità sicula? Perché un omosessuale perde di virilità a priori, destinato sempre ad essere considerato u fimminiellu? "Nè canni nè pisci", e per questo alla merce di insulti e violenze in quanto non rientra in una categoria.. O forse è proprio vero che bisogna sposare "na babba" e fare i propri comodi?
R. La Sicilia è una terra in cui per "sopravvivere" bisogna guadagnarsi il rispetto o, purtroppo, prenderselo con la forza. Perché tutto ruota intorno alla forza, e meglio ancora ad un modo "violento" di imporre questa forza. L'omosessualità, ai più, sembrerebbe scardinare proprio questo sistema in quanto l'omosessuale fa della sua vulnerabilità la sua forza. Questo fa entrare in tilt il "sistema". Anche se assolutamente, oggi, si può parlare di omosessualità in Sicilia. Ma anche qui, parliamo di un territorio troppo vasto e troppo diverso al suo interno per trovare una risposta comune. Sicuramente la Sicilia è una terra d'amore che sa riconoscere e difendere la passione. E sa accogliere. In fondo è un luogo profondamente ospitale e capace di modificarsi e di adattarsi. Sa cambiare, anche se spesso lo fa a rilento. Certamente negli ultimi anni la situazione è cambiata e tantissimi omosessuali vivono una condizione assolutamente tranquilla e sono pienamente integrati ed accettati. Ma da città a città questo cambia a volte anche sensibilmente. Ed è pur sempre vero però che in alcuni casi viene tollerata ma vista come una cosa da cui stare lontani. Con la speranza che "non capiti a mio figlio/mia figlia".
D. Il corpo in scena: Credo che esista una forte componente teatrale insita nei siciliani, un corpo quotidianamente drammatico che sulla scena diventa performativo e fortemente evocativo. "U masculu ava fari u masculu e a fimmina a fimmina", che vuol dire? Forse che si è vittime di ruoli e comportamenti "secolarizzati" che stanno stretti anche ai siciliani?
R. Stanno stretti davvero? Forse la risposta sta nel mezzo. Nella lotta. La lotta tra qualcosa di deciso a priori e una tendenza a voler cambiare le cose. Questa lotta è profondamente insita, e profondamente "siciliana". Come a dire che ci piace in fondo esistere e farlo con un po' di sofferenza. Una tendenza sadica alla vita. Perché in quella lotta forse si trova la ragione stessa per essere vivi. Anche se troppo spesso si giunge ad un lotta così silenziosa da trasformarsi in immobilismo.
D. Il sesso, l'omosessualità, le malattie e le perversioni: ignoranza o indifferente ingenua omertà?
R. C'è tanta ignoranza e tanta omertà. Ma alla base c'è la scarsa volontà di scoprire cosa c'è dietro l'angolo e di allargare il proprio orizzonte. Troppo spesso siamo spettatori passivi, senza curiosità. Ed è per paura di perdere quel pezzo di sé conquistato a forza, sudato e meritato, che finisce facilmente per diventare una tomba. E così diventiamo ogni giorno protagonisti di un disfacimento generale. Assistiamo ogni giorno al disfacimento: morale, emotivo, culturale, intellettuale, materiale. Lo alimentiamo, scavando così una fossa sempre più profonda alla nostra tomba.
Io, mai niente con nessuno avevo fatto è l'Etna che erutta, il "baccano" che si sente per le vie dei mercati, la voglia di resistenza ad una condizione stantia e lenta a cambiare. E' un urlo contro l'indifferenza che alla violenza preferisce la compassione (provare con), all'ignoranza la consapevolezza, ai pregiudizi le scelte ponderate. "I siciliani su genti i medda" grida l'unica protagonista donna. Non solo denuncia facile, quindi, contro l'omofobia, ma critica e sdegno ne confronti di un'umanità sub-umana: realtà in cui la madre "buttana" si fa "fottere" da tutti i componenti maschi della famiglia, nella stalla. Il cugino che rischia una "gang bang" non voluta dai parenti. Il sesso che diviene un'esigenza animale, il rispetto per la cosa amata un optional. "Si malato, fimminedda, ricchiuni, frocio di merda, ricchiella, sgaggiatu" sono solo alcuni dei complimenti che vengono urlati nelle piazze e nelle vie, spifferati con indifferenza alle orecchie agli amici, dette con bonaria cattiveria "davanti e bisola di casi e di bar". L'omosessuale, le prostitute per diletto e passione, "i babbi du paisi" o meglio tutti quelli che rientrano nella categoria dei "freaks", per consuetudine posso essere derisi pubblicamente, secondo alcuni, in qualsiasi "sud" del mondo si pensa sia un diritto innato.
Uno spettacolo performativo dal testo sonoro in quanto il siciliano è una lingua musicalissima e i siciliani degli ottimi attori inconsapevoli. Tutto è pantomima e tragedia nella loro quotidianità e, non è un caso, che daEmma Dante a Pirrotta, da Zappalà fino alle parole della Consoli, la sicilianità sia stata oggetto di riflessione e denuncia adattandosi perfettamente alle esigenze teatrali. I Vuccirìa entrano di diritto in questo filone di siciliani che rendono orgogliosi gli isolani e che si auto denunciano, che guardano il reale e percepiscono dei cortocircuiti. Certo vogliono rompere, scardinare, scuotere, demolire per ricostruire. Che cosa?
Scopriamolo con il regist'attore Joele Anastasi.
D. Giovanissima Compagnia che al suo esordio esplode raccontando di "margini". Un sud geografico che si fa sinonimo di un "sud" delle coscienze?
R. Certamente il "Sud" è una condizione interiore dalla quale si può difficilmente prescindere. Almeno nel nostro caso è quasi impossibile. La nostra terra è come una madre che culla i propri figli per condurli in un sonno eterno. E' amore e senso di protezione che si trasforma velocemente in una lenta agonia. La storia che noi raccontiamo svela delle dinamiche umane che non necessariamente sono inscrivibili ad una zona geografica specifica. E' amore puro che si intreccia ad un destino ineluttabile che spinge verso la morte, come nei più tradizionali drammi. Solo che certamente abbiamo sfruttato la nostra terra per sporcarci le mani fino in fondo. La Sicilia è una lente d'ingrandimento che svela una natura profonda delle cose, dove ogni cosa che accade è mastodontica, grande, pesante. Quasi come fosse pronta a trascinarti giù con lei, negli abissi del mare, per rimanere nascosta in eterno.
D. Il monologo conquista la critica e vince dei premi. Inizio col botto... e via alla tournée! La necessità della denuncia.
R. Vuccirìa teatro nasce dalla necessità di preservare la nostra autenticità. Oggi tutto è omologazione e standardizzazione. Anche l'industria dell'arte sforna eserciti di esecutori ripuliti e svuotati. Anime in potenza "sensibili" che finiscono per aderire ad un modello artistico e culturale che non li rappresenta. Avevamo voglia di parlare, e di trovare la nostra via d'accesso per l'Arte. Ed è difficile oggi iniziare un percorso di compagnia. Ma tremendamente stimolante. Oggi fare Arte per noi significa lottare, resistere a quel disfacimento. Probabilmente per cercare di cambiare il mondo, o di sopravvivere da esso. Siamo giovani e la nostra generazione sa che per esistere deve lottare in maniera brutale. Non c'è altrimenti via d'uscita. Quindi in fondo siamo fortunati perché dobbiamo scegliere solo tra due cose, o vivi o morti.
D. E il dialetto siculo piace a quanto pare...
R. Piace probabilmente perché la gente riconosce in esso il nostro tentativo di essere autentici. Un pezzettino del nostro cuore regalato a chi sceglie di sedersi per ascoltare la nostra storia.
D. Inizialmente uno, poi il trio compatto: l'incontro con Federica Carruba Toscano e Enrico Sortino e, le modifiche al testo.
R. Il monologo dal quale nasce lo spettacolo è stato certamente un ottimo banco di prova. A quei tempi c'erano solo tre fari, un rossetto e la storia. O meglio il nucleo della storia. Perché in effetti il monologo ripercorreva lo stesso arco narrativo dello spettacolo lungo. Raccontava di tutti e tre i personaggi e delle dinamiche tra questi personaggi. E così da quella stessa storia siamo partiti. Qualche faro in più, una cassapanca, ma stavolta in tre sulla scena. In molti si domandavano se il "salto" nel lungo non comportasse il rischio di far perdere d'intensità alla storia, di "allungare" il brodo e basta. Oggi ripensando alle tappe di questo spettacolo, ci rendiamo conto di quanto sia avvenuto un "incastro" magico tra tanti aspetti. Abbiamo coltivato il nostro frutto. Ed il nostro frutto è forse una cipolla, che si compone strato dopo strato per diventare un corpo unico. Noi tre in scena siamo un corpo unico. C'è molta intesa e molta fiducia e sappiamo che tutti e tre insieme possiamo essere quel terremoto che non saremmo se fossimo separati. Tre pezzi di uno stesso cuore.
D. Si può o non si può parlare di omosessualità in Sicilia? Cosa scardina nella quotidianità sicula? Perché un omosessuale perde di virilità a priori, destinato sempre ad essere considerato u fimminiellu? "Nè canni nè pisci", e per questo alla merce di insulti e violenze in quanto non rientra in una categoria.. O forse è proprio vero che bisogna sposare "na babba" e fare i propri comodi?
R. La Sicilia è una terra in cui per "sopravvivere" bisogna guadagnarsi il rispetto o, purtroppo, prenderselo con la forza. Perché tutto ruota intorno alla forza, e meglio ancora ad un modo "violento" di imporre questa forza. L'omosessualità, ai più, sembrerebbe scardinare proprio questo sistema in quanto l'omosessuale fa della sua vulnerabilità la sua forza. Questo fa entrare in tilt il "sistema". Anche se assolutamente, oggi, si può parlare di omosessualità in Sicilia. Ma anche qui, parliamo di un territorio troppo vasto e troppo diverso al suo interno per trovare una risposta comune. Sicuramente la Sicilia è una terra d'amore che sa riconoscere e difendere la passione. E sa accogliere. In fondo è un luogo profondamente ospitale e capace di modificarsi e di adattarsi. Sa cambiare, anche se spesso lo fa a rilento. Certamente negli ultimi anni la situazione è cambiata e tantissimi omosessuali vivono una condizione assolutamente tranquilla e sono pienamente integrati ed accettati. Ma da città a città questo cambia a volte anche sensibilmente. Ed è pur sempre vero però che in alcuni casi viene tollerata ma vista come una cosa da cui stare lontani. Con la speranza che "non capiti a mio figlio/mia figlia".
D. Il corpo in scena: Credo che esista una forte componente teatrale insita nei siciliani, un corpo quotidianamente drammatico che sulla scena diventa performativo e fortemente evocativo. "U masculu ava fari u masculu e a fimmina a fimmina", che vuol dire? Forse che si è vittime di ruoli e comportamenti "secolarizzati" che stanno stretti anche ai siciliani?
R. Stanno stretti davvero? Forse la risposta sta nel mezzo. Nella lotta. La lotta tra qualcosa di deciso a priori e una tendenza a voler cambiare le cose. Questa lotta è profondamente insita, e profondamente "siciliana". Come a dire che ci piace in fondo esistere e farlo con un po' di sofferenza. Una tendenza sadica alla vita. Perché in quella lotta forse si trova la ragione stessa per essere vivi. Anche se troppo spesso si giunge ad un lotta così silenziosa da trasformarsi in immobilismo.
D. Il sesso, l'omosessualità, le malattie e le perversioni: ignoranza o indifferente ingenua omertà?
R. C'è tanta ignoranza e tanta omertà. Ma alla base c'è la scarsa volontà di scoprire cosa c'è dietro l'angolo e di allargare il proprio orizzonte. Troppo spesso siamo spettatori passivi, senza curiosità. Ed è per paura di perdere quel pezzo di sé conquistato a forza, sudato e meritato, che finisce facilmente per diventare una tomba. E così diventiamo ogni giorno protagonisti di un disfacimento generale. Assistiamo ogni giorno al disfacimento: morale, emotivo, culturale, intellettuale, materiale. Lo alimentiamo, scavando così una fossa sempre più profonda alla nostra tomba.
gb
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