Il viaggio più costoso
niente sconti, no last minute
Prezzo pieno alla ricerca di sé stessi
Prendere e andare. Lasciare tutto per dirigersi verso la propria isola. Meta ultima: una migliore conoscenza di sé. Riuscire, insomma, a vedersi nudi anche se vestiti. Questo è il miglior viaggio da intraprendere, non una fuga dallo stress o dalla routine, ma un percorso consapevole che dal di fuori tende verso l'interno e, scavando, riuscire a toccare il profondo.
È opinione ormai accreditata che l'arte sia la "città" migliore ove approdare per conoscere centro e periferie. Perché l'arte ha il potere della creazione intuitiva e inconscia, cosi come l'uomo ha le facoltà di meditare cause ed effetti, i legami segreti che si nascondo dietro ogni creazione, gesto, composizione. Cosi intesa, l'arte diviene mezzo e scopo allo stesso tempo e l'artista, nel migliore dei casi, può aspirare ad una maggiore consapevolezza di sé come individuo singolo e di sé come individuo associato.
È soprattutto nell'arte attuale che questo processo conoscitivo e introspettivo si mostra chiaramente. Sempre più artisti fanno del loro corpo il referente privilegiato per muovere considerazioni che, riguardando tutti gli uomini, divengono universali. Dagli azionisti viennesi agli esponenti della body art, dall'arte sociale a quella relazionale la ricerca parte dall'analizzare - attraverso la nudità del loro corpo - in primis se stessi. E questo tipo di viaggio pone irrimediabilmente il confronto/scontro con le proprie ombre, con il male che ognuno ospita al proprio interno. Frustrazioni, repressioni, insoddisfazioni, perversioni financo i sentimenti più bassi che all'interno della società dei servizi e dei consumi si decantano poter essere sublimati, nella realtà dei fatti non fanno altro che creare discrepanze fra individualità e collettività. Si perde, in sostanza, l'equilibrio fra l'uomo animale e l'uomo civilizzato - l'animale sociale di antica definizione.
Si finisce cosi col biasimare tutte le conseguenze della "civiltà" e protendere verso la riscoperta di ciò che è lontano dalla cultura: l'istinto, l'animalità che volenti o nolenti fa parte del nostro dna. Così sempre più artisti mostrano opere in cui è l'ibrido uomo/animale ad essere il centro di riflessioni profonde. Pensiamo a Bacon, Barney, Goldin, Kelley e tutti quegli artisti che nel 2004 furono raggruppati nell'esposizione Il bello e le bestie al Mart di Rovereto. E come quella, altre collettive che, a partire dagli anni 90, fissano la loro ricerca seguendo un doppio binario: innovazione tecnologica anche delle coscienze e dell'immaginario, e uno sguardo nostalgico a ciò che eravamo. Perché l'arte può predire il futuro, certo, ma può anche ricordarci ciò che abbiamo perso denunciando le contraddizioni. L'arte può dirci che siamo "merde" (anche se d'artista), liquidi organici, animali che divengono insulti anche per gli animali stessi.
Appare superfluo dire quanto sia doloroso e pesante intraprendere questo tipo di viaggio, molti artisti infatti non sono riusciti a risalire dall'abisso che avevano scoperto dentro se stessi diventando folli o morti suicidi. Altri attenuano il dolore con droghe e alcool, altri ancora seguendo santoni e filosofie. Pochi coloro che lottano e familiarizzano col proprio dolore scoprendo il motto terenziano Homo sum: nihil humano a me alienum puto.
È opinione ormai accreditata che l'arte sia la "città" migliore ove approdare per conoscere centro e periferie. Perché l'arte ha il potere della creazione intuitiva e inconscia, cosi come l'uomo ha le facoltà di meditare cause ed effetti, i legami segreti che si nascondo dietro ogni creazione, gesto, composizione. Cosi intesa, l'arte diviene mezzo e scopo allo stesso tempo e l'artista, nel migliore dei casi, può aspirare ad una maggiore consapevolezza di sé come individuo singolo e di sé come individuo associato.
È soprattutto nell'arte attuale che questo processo conoscitivo e introspettivo si mostra chiaramente. Sempre più artisti fanno del loro corpo il referente privilegiato per muovere considerazioni che, riguardando tutti gli uomini, divengono universali. Dagli azionisti viennesi agli esponenti della body art, dall'arte sociale a quella relazionale la ricerca parte dall'analizzare - attraverso la nudità del loro corpo - in primis se stessi. E questo tipo di viaggio pone irrimediabilmente il confronto/scontro con le proprie ombre, con il male che ognuno ospita al proprio interno. Frustrazioni, repressioni, insoddisfazioni, perversioni financo i sentimenti più bassi che all'interno della società dei servizi e dei consumi si decantano poter essere sublimati, nella realtà dei fatti non fanno altro che creare discrepanze fra individualità e collettività. Si perde, in sostanza, l'equilibrio fra l'uomo animale e l'uomo civilizzato - l'animale sociale di antica definizione.
Si finisce cosi col biasimare tutte le conseguenze della "civiltà" e protendere verso la riscoperta di ciò che è lontano dalla cultura: l'istinto, l'animalità che volenti o nolenti fa parte del nostro dna. Così sempre più artisti mostrano opere in cui è l'ibrido uomo/animale ad essere il centro di riflessioni profonde. Pensiamo a Bacon, Barney, Goldin, Kelley e tutti quegli artisti che nel 2004 furono raggruppati nell'esposizione Il bello e le bestie al Mart di Rovereto. E come quella, altre collettive che, a partire dagli anni 90, fissano la loro ricerca seguendo un doppio binario: innovazione tecnologica anche delle coscienze e dell'immaginario, e uno sguardo nostalgico a ciò che eravamo. Perché l'arte può predire il futuro, certo, ma può anche ricordarci ciò che abbiamo perso denunciando le contraddizioni. L'arte può dirci che siamo "merde" (anche se d'artista), liquidi organici, animali che divengono insulti anche per gli animali stessi.
Appare superfluo dire quanto sia doloroso e pesante intraprendere questo tipo di viaggio, molti artisti infatti non sono riusciti a risalire dall'abisso che avevano scoperto dentro se stessi diventando folli o morti suicidi. Altri attenuano il dolore con droghe e alcool, altri ancora seguendo santoni e filosofie. Pochi coloro che lottano e familiarizzano col proprio dolore scoprendo il motto terenziano Homo sum: nihil humano a me alienum puto.