franco Branciaroli
L'Enrico IV o dell'impossibilità dell'identità
Torna al Carignano Luigi Pirandello.
La scorsa stagione lo Stabile aveva offerto tre delle perle del drammaturgo agrigentino, Il Fu mattia Pascal nella versione di Tato Russo, I Sei Personaggi di Gabriele Lavia, Non si sa come nell'elegante versione di Lombardi/Tiezzi, e nel nuovo palinsesto, inaugura il 2016 con uno dei capolavori pirandelliani. Con L'Enrico IV, primo esperimento pirandelliano di Franco Branciaroli, fino al 17 gennaio, si mette in scena la fuga dal reale attraverso il teatro e si narra di un'esistenza in bilico tra follia e finzione, tra manipolazione della verità e l'impossibilità di accertarla.
L'opera
Follia, alienazione, rinuncia
Opera in 3 atti, scritta nel 1921 e rappresentata per la prima volta nel 1922 al Teatro Manzoni di Milano, Enrico IV appartiene a quella che viene definita la Terza Fase del teatro pirandelliano, il "teatro nel teatro", dopo il "teatro siciliano" ed il "teatro umoristico/grottesco", e prima del "teatro dei miti". Scritta per Ruggero Ruggeri - uno degli attori più noti del periodo, che faceva parte della Compagnia del Teatro D'arte, fondata a Roma dallo stesso Pirandello il 6 ottobre 1924 - la tragedia è la recita di una recita. Finzione di una finzione.
Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: l'umiliazione del ventiseienne imperatore di Baviera, costretto a un'estenuante attesa, nell'inverno del 1077, fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia pirandelliana dura vent'anni.
Pirandello, insomma, mette in scena l'alienazione in un tempo in cui, il 1922, la psicanalisi è ancora scienza in fasce, un po' come Italo Svevo di lì a poco, nel 1923, farà con la sua Coscienza di Zeno. Enrico è un'alienato, vive al margine della società dei suoi simili, di cui subisce la diversità. La sua colpa è quella di affrontare la vita con troppa serietà e pretendere di essere preso sul serio da chi serio non vuole essere, come testimoniano le parole di Matilde, che nel primo atto afferma: «Risi di lui. Con rimorso, anzi con vero dispetto contro me stessa, poi perché vidi che il mio riso si confondeva con quello degli altri - sciocchi - che si facevano beffe di lui».
L'errore di Enrico è quello di credere veramente che la «società» consista in un giuoco cooperativo volto a edificare e a sviluppare opere e civiltà. Ma in realtà, quella appare come un giuoco antagonista, in cui i mediocri, che sono i più, alleano le loro insufficienti forze per ostacolare chi, considerato capace, rispecchia la loro mediocrità. «Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare».
La follia diviene, allora, il punto di rottura con la falsità della realtà ed Enrico si schiera nelle lunghe fila dei personaggi novecenteschi che si arroccano in altre dimensioni rispetto alla realtà sensibile e che sono coscienti della loro situazione. Come il Des Esseintes di Joris Karl Huysmans o Rosario Chiarchiaro de La patente, Enrico IV è metafora dell'uomo moderno con tutte le sue nevrosi. Ma, sebbene pazzo, lo si connota come personaggio positivo, distruttore di verità fittizie ma, al contempo, sinonimo di repressione volontaria, di senso della rinuncia autoindotto.
Togliamoci la maschera, per morire dentro
Enrico IV mette in evidenza il relativismo psicologico in cui credeva Pirandello. Certo tutti gli uomini nascono liberi, e ciò nonostante siamo tutti imprigionati dalle convenzioni di società precostituite. Scegliendo la crudeltà e il rifiuto del mondo, Pirandello, dopo la malattia della moglie Antonietta, amplifica i temi della perdita dell'Io e del contrasto tra vita e forma che connotano le sue principali opere.
L'io non riesce a - forse non può - venire fuori, e così non esiste vera comunicazione tra esseri umani dal momento che si è costretti ad indossare una maschera, dietro la quale si nascondono i nostri infiniti io. Concetto che, sviscerato già nel romanzo Uno, nessuno, centomila, conduce ad una solitudine nera e all'emarginazione dalla società: «Buffoni! Buffoni! Buffoni!», dirà Enrico ai servitori alla fine del secondo atto. «Non capisci? non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti? Buffoni spaventati».
E con la verità, viene fuori il pazzo filosofo: «Dovevate sapervelo fare da voi l'inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno, [...] Per quanto orrendi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: [...] il piacere, il piacere della storia, insomma, che è così grande!».
In questo modo Enrico IV tenta, nonostante abbia ormai ammesso la sua guarigione, di dimostrare quanto false ed ipocrite siano le vite di coloro che lo circondano, cristallizzate in una forma di cui non sono neanche consapevoli. La stessa morte di Belcredi per mano di Enrico IV simboleggia non la vendetta per gelosia, ma il bisogno esasperato di netto taglio con il passato perduto. Spaventando tutti, potrà continuare a fingersi pazzo, vivendo la propria vita in libertà e non più costretto da rigide imposizioni delle quali oramai è libero.
La via di fuga?
Pirandello pone tre tipi di reazioni da parte degli individui a questo relativismo: una reazione passiva, in cui si accetta la maschera e l'infelicità che ne consegue, senza opporre resistenza, come nel caso de Il fu Mattia Pascal; una reazione ironico-umoristica, come ne La patente, in cui si accetta la maschera con un atteggiamento ironico e aggressivo, cercando almeno di trarne vantaggio; infine, una reazione drammatica, come nel caso di Enrico IV: l'uomo si rende conto che l'immagine che ha sempre avuto di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui, e cerca di comprendere questo lato sconosciuto del suo io.
Vuole togliersi la maschera che gli hanno imposto, ma non riesce a strapparsela di dosso, ed egli sarà sempre come gli altri lo vogliono, anche se continuerà a lottare per impedirlo, arrivando fino alle tragiche conseguenze delle pazzia, del dramma e del suicidio. L'unico modo per vivere e trovare il proprio io è accettare il fatto di non avere un'identità, ma tanti frammenti, essere consapevoli di essere completamente alieni da sé stessi. Eppure, la società non accetta questo relativismo, e chi prova a seguire il consiglio saggio del siciliano, inevitabilmente, nonostante la veridicità di parole e ideali, finirà per essere visto come un pazzo.
Quando già ai tempi di Gibran e Pirandello la pazzia era data come l'unica forma di normalità. Quindi, ad oggi, nonostante un secolo sia passato dalle intuizioni di Pirandello, non resta, ai pensatori o alle persone intelligenti che usano la materia grigia, che riflettete sul fatto, che prima o poi, in un mondo di mediocri come quello italiano, la soluzione è o il suicidio alla Camus o l'omicidio alla Pirandello.
La scorsa stagione lo Stabile aveva offerto tre delle perle del drammaturgo agrigentino, Il Fu mattia Pascal nella versione di Tato Russo, I Sei Personaggi di Gabriele Lavia, Non si sa come nell'elegante versione di Lombardi/Tiezzi, e nel nuovo palinsesto, inaugura il 2016 con uno dei capolavori pirandelliani. Con L'Enrico IV, primo esperimento pirandelliano di Franco Branciaroli, fino al 17 gennaio, si mette in scena la fuga dal reale attraverso il teatro e si narra di un'esistenza in bilico tra follia e finzione, tra manipolazione della verità e l'impossibilità di accertarla.
L'opera
Follia, alienazione, rinuncia
Opera in 3 atti, scritta nel 1921 e rappresentata per la prima volta nel 1922 al Teatro Manzoni di Milano, Enrico IV appartiene a quella che viene definita la Terza Fase del teatro pirandelliano, il "teatro nel teatro", dopo il "teatro siciliano" ed il "teatro umoristico/grottesco", e prima del "teatro dei miti". Scritta per Ruggero Ruggeri - uno degli attori più noti del periodo, che faceva parte della Compagnia del Teatro D'arte, fondata a Roma dallo stesso Pirandello il 6 ottobre 1924 - la tragedia è la recita di una recita. Finzione di una finzione.
Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: l'umiliazione del ventiseienne imperatore di Baviera, costretto a un'estenuante attesa, nell'inverno del 1077, fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia pirandelliana dura vent'anni.
Pirandello, insomma, mette in scena l'alienazione in un tempo in cui, il 1922, la psicanalisi è ancora scienza in fasce, un po' come Italo Svevo di lì a poco, nel 1923, farà con la sua Coscienza di Zeno. Enrico è un'alienato, vive al margine della società dei suoi simili, di cui subisce la diversità. La sua colpa è quella di affrontare la vita con troppa serietà e pretendere di essere preso sul serio da chi serio non vuole essere, come testimoniano le parole di Matilde, che nel primo atto afferma: «Risi di lui. Con rimorso, anzi con vero dispetto contro me stessa, poi perché vidi che il mio riso si confondeva con quello degli altri - sciocchi - che si facevano beffe di lui».
L'errore di Enrico è quello di credere veramente che la «società» consista in un giuoco cooperativo volto a edificare e a sviluppare opere e civiltà. Ma in realtà, quella appare come un giuoco antagonista, in cui i mediocri, che sono i più, alleano le loro insufficienti forze per ostacolare chi, considerato capace, rispecchia la loro mediocrità. «Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare».
La follia diviene, allora, il punto di rottura con la falsità della realtà ed Enrico si schiera nelle lunghe fila dei personaggi novecenteschi che si arroccano in altre dimensioni rispetto alla realtà sensibile e che sono coscienti della loro situazione. Come il Des Esseintes di Joris Karl Huysmans o Rosario Chiarchiaro de La patente, Enrico IV è metafora dell'uomo moderno con tutte le sue nevrosi. Ma, sebbene pazzo, lo si connota come personaggio positivo, distruttore di verità fittizie ma, al contempo, sinonimo di repressione volontaria, di senso della rinuncia autoindotto.
Togliamoci la maschera, per morire dentro
Enrico IV mette in evidenza il relativismo psicologico in cui credeva Pirandello. Certo tutti gli uomini nascono liberi, e ciò nonostante siamo tutti imprigionati dalle convenzioni di società precostituite. Scegliendo la crudeltà e il rifiuto del mondo, Pirandello, dopo la malattia della moglie Antonietta, amplifica i temi della perdita dell'Io e del contrasto tra vita e forma che connotano le sue principali opere.
L'io non riesce a - forse non può - venire fuori, e così non esiste vera comunicazione tra esseri umani dal momento che si è costretti ad indossare una maschera, dietro la quale si nascondono i nostri infiniti io. Concetto che, sviscerato già nel romanzo Uno, nessuno, centomila, conduce ad una solitudine nera e all'emarginazione dalla società: «Buffoni! Buffoni! Buffoni!», dirà Enrico ai servitori alla fine del secondo atto. «Non capisci? non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti? Buffoni spaventati».
E con la verità, viene fuori il pazzo filosofo: «Dovevate sapervelo fare da voi l'inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno, [...] Per quanto orrendi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: [...] il piacere, il piacere della storia, insomma, che è così grande!».
In questo modo Enrico IV tenta, nonostante abbia ormai ammesso la sua guarigione, di dimostrare quanto false ed ipocrite siano le vite di coloro che lo circondano, cristallizzate in una forma di cui non sono neanche consapevoli. La stessa morte di Belcredi per mano di Enrico IV simboleggia non la vendetta per gelosia, ma il bisogno esasperato di netto taglio con il passato perduto. Spaventando tutti, potrà continuare a fingersi pazzo, vivendo la propria vita in libertà e non più costretto da rigide imposizioni delle quali oramai è libero.
La via di fuga?
Pirandello pone tre tipi di reazioni da parte degli individui a questo relativismo: una reazione passiva, in cui si accetta la maschera e l'infelicità che ne consegue, senza opporre resistenza, come nel caso de Il fu Mattia Pascal; una reazione ironico-umoristica, come ne La patente, in cui si accetta la maschera con un atteggiamento ironico e aggressivo, cercando almeno di trarne vantaggio; infine, una reazione drammatica, come nel caso di Enrico IV: l'uomo si rende conto che l'immagine che ha sempre avuto di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui, e cerca di comprendere questo lato sconosciuto del suo io.
Vuole togliersi la maschera che gli hanno imposto, ma non riesce a strapparsela di dosso, ed egli sarà sempre come gli altri lo vogliono, anche se continuerà a lottare per impedirlo, arrivando fino alle tragiche conseguenze delle pazzia, del dramma e del suicidio. L'unico modo per vivere e trovare il proprio io è accettare il fatto di non avere un'identità, ma tanti frammenti, essere consapevoli di essere completamente alieni da sé stessi. Eppure, la società non accetta questo relativismo, e chi prova a seguire il consiglio saggio del siciliano, inevitabilmente, nonostante la veridicità di parole e ideali, finirà per essere visto come un pazzo.
Quando già ai tempi di Gibran e Pirandello la pazzia era data come l'unica forma di normalità. Quindi, ad oggi, nonostante un secolo sia passato dalle intuizioni di Pirandello, non resta, ai pensatori o alle persone intelligenti che usano la materia grigia, che riflettete sul fatto, che prima o poi, in un mondo di mediocri come quello italiano, la soluzione è o il suicidio alla Camus o l'omicidio alla Pirandello.
gb
Teatro Stabile
Enrico IV
di Luigi Pirandello
con Franco Branciaroli
scene e costumi Margherita Palli
luci Gigi Saccomandi
www.incamminati.it
Enrico IV
di Luigi Pirandello
con Franco Branciaroli
scene e costumi Margherita Palli
luci Gigi Saccomandi
www.incamminati.it